Articoli , pensieri e riflessioni sul celibato sacerdotale (o celibato ecclesiastico) e sulla castità come consiglio evangelico.
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mercoledì 23 gennaio 2013

Cardinal Marc Ouellet sul celibato ecclesiastico



Marc Ouellet

A questo punto della nostra riflessione sull’identità personale del vescovo come figlio di Dio investito d’una missione pastorale, mi sembra importante trattare della realtà del suo celibato apostolico. La disciplina del celibato nella Chiesa latina esprime la lunga fedeltà della Chiesa alla volontà del Signore di scegliere quelli ch’egli vuole per «essere con lui» (cfr. Marco, 3, 14) in un rapporto di amicizia che fonda il ministero apostolico. Ciò risulta chiaramente dal dialogo di Gesù con Pietro dopo la sua resurrezione: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu? (...) Pasci i miei agnelli» (Giovanni 21, 15).

Il celibato dei sacerdoti, come quello dei vescovi, è messo oggigiorno in discussione con crescente virulenza a causa degli abusi sessuali commessi da chierici, anche su minori, degli abusi denunciati con forza e resi pubblici, che generano sospetti generalizzati contro il clero. La tradizione sempre viva e importante del celibato nella Chiesa ne risulta sminuita e anche posta in questione.

Contestata in modo ricorrente attraverso i secoli, questa tradizione risale nondimeno alle origini apostoliche, e i sommi pontefici della nostra epoca l’hanno sempre riconfermata.

La tradizione ecclesiastica del celibato e della continenza dei chierici non è sorta come una novità all’inizio del IV secolo, ma piuttosto come la conferma disciplinare di una tradizione, sia in Oriente che in Occidente, che risale fino agli Apostoli (cfr. C. Cochini, Origines apostoliques du célibat sacerdotal, Le Sycomore, 1981; H. Crouzel, «Le célibat et la continence ecclésiastique dans l’Église primitive: leurs motivations», dans J. Coppens, Sacerdoce et célibat, Gembloux, 1971). Quando nel 306, il concilio di Elvira, in Spagna, stabilisce che i sacerdoti devono vivere obbligatoriamente la continenza perfetta, occorre comprendere che questa esigenza della Chiesa dei primi secoli include sia il celibato sia l’interdizione a risposarsi, come anche la continenza perfetta per quelli che sono già sposati (cfr. C. Cochini, ibidem; A.-M. Stickler, «L’évolution de la discipline du célibat dans l’Église en Occident de la fin du l’âge patristique au concile de Trente», dans J. Coppens, ibidem; H. Crouzel, ibidem; R. Gryson, Les origines du célibat ecclésiastique. Du premier au septième siècle, Gembloux, 1970).

Anche se le rivoluzioni contemporanee nel campo della sessualità e delle comunicazioni hanno reso più difficile la pratica della castità nel celibato, ciò non toglie che questa forma di vita «apostolica», sull’esempio di Cristo, testimonia con forza che la Parola escatologica di Dio è entrata nella storia umana e che il suo impatto ha dato luogo a nuovi stili di vita e a nuove istituzioni. Il celibato apostolico del veda Dio con il suo popolo non è solo un ideale, ma anche una realtà. Una realtà nuziale di altro ordine rispetto al matrimonio, ma che racchiude una felicità reale e una gioia senza pari. All’origine del celibato apostolico del vescovo e della verginità consacrata c’è dunque lo stesso fondamento: la Parola escatologica di Dio all’umanità, il Cristo Sposo (cfr. Efesini 5, 27) che cerca e ottiene in cambio un dono totale da parte della Chiesa-Sposa.

La differenza fra le due forme di consacrazione è specificata dal carisma proprio di ognuna. Il celibato apostolico del vescovo e dei suoi sacerdoti è associato al carisma ministeriale di convocazione, di evangelizzazione e di santificazione. La verginità consacrata in tutte le sue altre forme incarna la risposta carismatica radicale e totale della Chiesa-Sposa.



Al di là delle ragioni pratiche di disponibilità e di servizio, il celibato del vescovo si può veramente capire solo a partire da questo contesto nuziale e sacramentale d’Alleanza fra Cristo e la Chiesa. Il vescovo certifica con il suo celibato che Dio è Amore e che si aspetta dalla sua creatura Amore per Amore. Di più, egli è come coinvolto nello slancio sponsale di Cristo-Sposo che ha dato il suo corpo e il suo sangue in nutrimento affinché il mondo abbia la vita (cfr. Giovanni 6, 51). Così la proclamazione della Parola di Dio, compiuta «nella carne» e nel ministero del vescovo, genera l’uomo alla vita nuova nello Spirito, ossia alla comunione trinitaria vissuta sacramentalmente nel Corpo della Chiesa. «Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Efesini 4, 4-6).

Prendiamo coscienza del fatto che il celibato apostolico non è un’imposizione arbitraria della Chiesa, ma piuttosto una testimonianza di amore, in armonia profonda con il ministero episcopale e sacerdotale. Conviene perfettamente alla natura escatologica del nostro ministero. Vissuto nello Spirito e senza compensazioni, meglio situato nel quadro di un’ecclesiologia nuziale, potrà veramente rispondere alle pressanti domande che ci poniamo sulla nuova evangelizzazione e sul rinnovamento delle vocazioni sacerdotali e religiose.

«Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu? (...) Pasci le mie pecore» (Giovanni 21, 15). Amore di Cristo e fecondità apostolica sono assolutamente unite. Questa domanda di Gesù a Pietro sintetizza magnificamente tutto ciò. È nella misura in cui gli apostoli hanno lasciato tutto per seguire Gesù che sono potuti divenire «pescatori di uomini» con la forza dello Spirito e che il giorno della Pentecoste la predicazione di Pietro ha potuto suscitare la metanoia di migliaia di persone. È da questa risposta personale all’amore del Signore nel celibato, da questo appello a «stare con lui», a vivere sotto l’influenza dello Spirito di santità, che dipenderà, anche per noi, la fecondità del nostro ministero episcopale.

 © L'Osservatore Romano 7 agosto 2011