FONDAMENTI STORICI DEL CELIBATO
SACERDOTALE
Sono trascorsi trent'anni dalla pubblicazione
dell'Enciclica «Sacerdotalis Caelibatus», emanata da Papa Paolo VI. Trent'anni
di ricerca, come auspicava il suo Autore, ma anche trent'anni di crisi. Non in misura
maggiore di quanto avesse fatto il Concilio Vaticano II, né più di quanto
avrebbero fatto le altre dichiarazioni del Magistero su tale questione, il
documento papale in realtà non pose termine alla contestazione. Nel clima
sociale saturo di erotismo degli anni '60, il dubbio che si era impadronito di
molti riguardo al valore del celibato sacerdotale trovò con estrema facilità un
terreno particolarmente fertile in cui moltiplicarsi. Alle motivazioni
ampiamente sviluppate da Paolo VI per giustificare la disciplina della Chiesa
Latina, risposero numerose voci che addussero altrettanti motivi per
criticarle. Fu come se l'Enciclica, contrariamente al suo intendimento, avesse
aperto un dibattito nel quale ciascuno si riteneva autorizzato ad intervenire,
a proposito e a sproposito. Applaudito dai media, il matrimonio di molti
sacerdoti si ammantò di un odore profetico e vi furono diversi teologi che
misero in questione i fondamenti del celibato.
Trent'anni nel corso dei quali si verificarono non
pochi drammi, ma che consentirono comunque alla Chiesa di esercitare un'azione
di discernimento più profondo. Nel 1992, la diagnosi contenuta nell'Esortazione
apostolica Pastores dabo vobis di Papa Giovanni Paolo II, grazie alla sua
precisione e alla sua chiarezza, annunciò la conclusione della crisi. Frutto
della riflessione collegiale dell'Episcopato del mondo intero al Sinodo del
1990, si può dire che il nuovo documento riscoprì «tutta la profondità
dell'identità sacerdotale» e mostrò che solo «una conoscenza esatta e profonda
della natura e della missione del sacerdozio ministeriale» poteva risolvere il
problema. Il sacerdote non è e non sarà mai un «funzionario»; egli è unito a
Cristo, Sacerdote Supremo e Buon Pastore, con un legame ontologico specifico
che fa di lui, nel senso forte del termine, un alter Christus. L'imitazione
della verginità di Cristo è anche, per quest'altro Cristo che è il sacerdote,
una via sicura per assomigliare a Lui e, con Lui, «offrirsi per essa», la
Chiesa, sua Sposa. Su questo fondamento teologico incontestabile il celibato
sacerdotale ritrova la sua alta nobiltà. Nel manifestarne le radici
evangeliche, l'Esortazione apostolica Pastores dabo vobis collega questa
vocazione a Colui che, in modo unico ed irrepetibile, le può dare significato ed
offrire a coloro che sono chiamati a viverla il centuplo in termini di amore e
di paternità.
La storia a questo punto ci pone un problema. Se è
vero che esiste un legame di questo tipo tra il celibato, - o la perfetta
continenza - ed il sacerdozio ministeriale, che ne è stato dei primi sacerdoti,
vale a dire degli apostoli? Paolo VI scriveva: «Gesù, che scelse i primi
ministri della salvezza e li volle introdotti all'intelligenza dei misteri del
regno dei cieli, cooperatori di Dio ad un titolo specialissimo, ambasciatori
suoi, e li chiamò amici e fratelli, per i quali consacrò se stesso, affinché
fossero consacrati nella verità, promise di ricompensare abbondantemente
chiunque avesse abbandonato casa, famiglia, moglie e figli per il regno di Dio
(N. 22). E possibile conciliare questi sorprendenti privilegi, questa intimità
eccezionale con il Signore della quale godevano gli apostoli, con l'idea che
essi abbiamo potuto non sentirsi interpellati dalla verginità del loro Maestro,
dal suo invito a lasciare «ogni cosa» per seguirlo? Sono stati così «tardi di
cuore nel credere», ed hanno essi, con il loro atteggiamento, incoraggiato i
loro successori per molti secoli, a praticare liberamente il matrimonio dopo
l'ordinazione? La questione è secondaria in rapporto alla teologia del
sacerdozio, ma è assai rilevante per i nostri spiriti moderni, che comprendono
con fatica come uno stile di vita sacerdotale, le cui motivazioni sono
presentate come omogenee al Vangelo ed ispirate all'esempio di Cristo, abbia
potuto essere considerato come facoltativo dagli apostoli; proprio loro, la cui
missione era precisamente quella di far conoscere il Vangelo e di mostrare
attraverso tutta la loro vita ciò che era e ciò che doveva essere un alter
Christus. I numerosi libri o articoli apparsi dopo il Concilio, consacrati al
celibato dei sacerdoti, si richiamano quasi sempre alla storia, sottolineando
giustamente l'importanza del problema.
Per quanto riguarda la parte di mia competenza, ho
iniziato le mie ricerche nel 1964, in preparazione al Dottorato in Teologia. Il
punto di partenza fu il canone di un Concilio africano del 390 che,
stranamente, faceva risalire l'obbligo della continenza clericale ad una
tradizione apostolica. Eccone il testo:
Epigone, Vescovo di Bulla Regia, dice: «in un Concilio
precedente si discusse sulla norma della continenza e della castità. Che si
istruisca dunque (ora) con maggior impegno sui tre gradi, che, in virtù della
loro consacrazione, sono vincolati dallo stesso obbligo di castità, voglio dire
il vescovo, il presbitero e il diacono e che si insegni ad essi a conservarsi
puri». Il vescovo Geneclio dice: «Come si è detto precedentemente, conviene che
i santi vescovi ed l presbiteri di Dio, al pari del leviti, vale a dire coloro
che sono ministri dei sacramenti divini, osservino una continenza perfetta per
potere ottenere in tutta semplicità ciò che essi domandano a Dio; ciò che
insegnarono gli apostoli e ciò che la tradizione stessa ha osservato, facciamo
in modo di osservarlo anche noi». All'unanimità, I vescovi dichiararono: «Piace
a tutti noi che il vescovo, il presbitero ed il diacono, custodi della purezza,
si astengano (dal commercio coniugale) con la propria sposa, affinché coloro
che sono al servizio dell'altare osservino una castità perfetta»[1][1].
Questo canone ebbe un ruolo importante nella storia
della disciplina della continenza sacerdotale non solo in Africa, ma in tutta
la Chiesa. Esso fu spesso invocato, nel corso dei secoli, per verificare o
consolidare il legame tradizionale tra la disciplina del celibato e
"l'insegnamento degli apostoli". I primi a farvi ricorso furono i
Padri Bizantini del Concilio "in Trullo" del 692, di cui parleremo
più avanti. Pio XI, nel nostro tempo, vi si riferisce esplicitamente
nell'Enciclica «Ad catholici sacerdotii fastigium» (1935)[2][2].
Questa constatazione, che fu per me una scoperta, mi
spinse a scegliere il canone di Cartagine come filo conduttore. I Padri
Africani avevano detto la verità? L'obbligo della continenza perfetta per i
vescovi, i presbiteri ed i diaconi risaliva veramente agli apostoli, come essi
affermavano in modo così deciso? Si rivelò necessario un triplice studio: fare
un inventario completo dei documenti sul celibato dei chierici, sia per la
Chiesa di Occidente che per la Chiesa di Oriente; verificare la loro
autenticità; tentare, infine, una sintesi storica, alla luce di un principio
ermeneutico appropriato. Presenterò ora, per grandi linee, questo lavoro[3][3].
1. Le principali testimonianze
patristiche
Accanto al canone di Cartagine, troviamo nel IV sec. numerosi documenti pubblici, che fanno
ugualmente risalire ai tempi apostolici la disciplina sulla continenza perfetta
del clero. Essi sono, in ordine cronologico:
1 - La decretale Directa,
del 10 Febbraio 385, inviata da Papa Siriaco al Vescovo Imero, metropolita di
Tarragona[4][4]. Il Pontefice
Romano ricorda al clero spagnolo il dovere della continenza perfetta, il cui
principio è contentuo nel Vangelo di Cristo, ed aggiunge: «È per la legge
indissolubile di queste decisioni che noi tutti, sacerdoti e diaconi, ci
troviamo vincolati, a partire dal giorno della nostra ordinazione, (ed
obbligati) a mettere i nostri cuori ed i nostri corpi al servizio della
sobrietà e della purezza...»
2 - La decretale Cum
in unum, inviata da Papa Siriaco agli episcopati di diverse provincie per
comunicare loro le decisioni prese nel gennaio del 386 a Roma da un concilio di
80 vescovi[5][5].
Il documento insiste sulla fedeltà alle tradizioni
trasmesse dagli apostoli, poiché «non si tratta di promulgare dei nuovi
precetti, ma di fare osservare quelli che, a motivo dell'apatia e della
pigrizia di certuni, sono stati trascurati». Tra le varie cose «stabilite con
una costituzione apostolica e con una costituzione dei Padri» si trova anche l'obbligo
alla continenza per i chierici che hanno ricevuto gli ordini maggiori.
Un'osservazione importante: se l'Apostolo chiede di scegliere come vescovo ,
presbitero o diacono un "uomo sposato una sola volta", è propter
continentiam futuram, in vista della continenza che i candidati sposati
avrebbero dovuto osservare dopo la loro ordinazione.
3 - La Decretale Dominus
inter, di Siriaco (o forse di Damaso). Per rispondere a certi quesiti dei
vescovi delle Gallie[6][6], il Papa si
propone di richiamarli all'ordine «facendo conoscere le tradizioni»; in questo
contesto egli parla dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi, riguardo ai
quali, egli dice espressamente, «le divine Scritture, e non soltanto noi
stessi, fanno obbligo di essere molto casti».
Queste tre Decretali rivestono un "importanza
fondamentale per la storia delle origini del celibato dei chierici. Esse
presuppongono, come cosa normale e legittima, l'ordinazione di numerosi uomini
sposati. Costoro, a partire dal diaconato, sono comunque tenuti alla continenza
perfetta con la loro sposa, se essa è ancora in vita, e l'infrazione di questa
disciplina, frequente allora in certe provincie lontane da Roma come la Spagna
e le Gallie, è condannata in quanto ritenuta contraria alla tradizione
apostolica.
Per valutare l'esatta portata di questi documenti, è
necessario ricordarsi che la Chiesa di Roma ha raggiunto molto presto una
posizione assolutamente unica, in quanto testimone della Tradizione derivata
dagli apostoli. Sant'Ireneo ha espresso quest'idea in una formula divenuta
celebre: «con questa Chiesa, a motivo della sua origine più eccellente, deve
necessariamente accordarsi ogni Chiesa, vale a dire i fedeli di ogni luogo,
Chiesa nella quale sempre, a beneficio
di tutte le genti, è stata conservata la Tradizione che deriva dagli apostoli»[7][7].
Questa posizione privilegiata della Sede «apostolica»
consente di assicurare che i pontefici romani di questo scorcio del IV secolo
si siano fatti garanti a nome di tutta la Chiesa di una tradizione del "celibato-continenza"[8][8] per i chierici
che hanno ricevuto gli ordini maggiori e provengono dalla linea degli apostoli,
e che abbiano impegnato in questa affermazione rutta la propria credibilità.
Numerosi autori patristici, sempre del IV secolo,
parlano di una disciplina che richiede la continenza perfetta per i chierici
che hanno ricevuto gli ordini maggiori. Possiamo limitarci ai più
rappresentativi:
Sant'Epifanio di Salamina (315-403 circa). Nel suo
Panarion, il vescovo di Cipro confuta i montanisti, che gettavano discredito
sul matrimonio; niente di più contrario all'intenzione del Signore, che ha
scelto i suoi apostoli non solo tra i vergini, ma anche tra i monogami.
Tuttavia, aggiunge Epifanio, questi apostoli sposati praticarono in seguito la continenza
perfetta e, seguendo l'esempio che Gesù, la regola della verità, aveva così
tracciato per loro, fissarono a loro volta la norma ecclesiastica del
sacerdozio[9][9]. Se in alcune
regioni ci sono dei chierici che continuano ad avere dei figli, ciò non avviene
in conformità agli autentici canoni ecclesiastici[10][10].
Nella postfazione del Panarìon, la disciplina generale vigente all'epoca è
descritta chiaramente:
...in mancanza di vergini (il sacerdote viene
reclutato) tra i monaci; se non ci sono monaci sufficienti per il ministero (si
reclutino) tra gli sposi, che conservino la continenza con la loro spsa, o tra
gli ex-monogami vedovi; tuttavia in essa (cioè nella Chiesa) non è consentito
ammettere al sacerdozio l'uomo risposato, anche se egli mantiene la continenza
o se è vedovo, (è scartato) dall 'ordine dei vescovi, dei presbiteri, dei
diaconi e dei suddiaconi [11][11].
L'Ambrosiaster (366-384 circa) tratta in due occasioni della
continenza dei chierici. Nel commento alla prima lettera a Timoteo[12][12] sviluppa
un'argomentazione simile a quella di Siriaco, di Ambrosio e di Girolamo; pur
esigendo che il futuro diacono o vescovo sia unius uxoris vir, l'Apostolo non
ha loro riconosciuto la libertà del commercio coniugale; al contrario «che essi
sappiano bene di poter ottenere ciò che domandano, se si astengono per di più
dall'uso del matrimonio». La stessa idea si riscontra nelle Quaestiones veteris
et novi Testamenti, che testimoniano allo stesso tempo una visione sana della
sessualità nobilitata dal Creatore, contrastante con il pessimismo manicheo o
la diffidenza encratista nei confronti dell'«opera della carne». I requisiti
richiesti dal sacerdozio sono eccezionali, perché fondati sul carattere
eccezionale delle sue funzioni. Ministro di Cristo, di cui "ogni giorno fa
le veci", egli è consacrato "alla causa di Dio" e deve potersi
"dedicare alla preghiera" ed al suo ministero in modo costante.
L'antropologia che sta alla base di questi testi è di ispirazione paolina.
Sant'Ambrogio di Milano (circa
333-397) commenta
anch'egli allo stesso modo l’Unius uxoris vir di San Paolo:
«Non è a generare figli durante (la sua carriera)
sacerdotale che L'Autorità apostolica invita il sacerdote; (l'Apostolo) in
effetti ha parlato di un uomo che ha (già) dei figli, non di qualcuno che ne
generi (altri) o che contragga un nuovo matrimonio[13][13].
Altrove egli risponde all'obiezione, sollevata dai
leviti dell'Antico Testamento, giustificando con un a fortiori, come i suoi
contemporanei, la continenza perfetta richiesta ai sacerdoti della Nuova
Alleanza[14][14].
San Girolamo (circa 347-419) ritorna più volte
sul problema della continenza dei chierici, soprattutto nel corso della sua
polemica con Gioviniano e Vigilante. Nell’Adversus Jovinianum, egli commenta
Yunius uxoris vir della prima Lettera a Timoteo nello stesso senso di Siriaco:
si tratta di un uomo che ha potuto avere figli prima della sua ordinazione, non
di uno che continui ad averne dopo[15][15].
La lettera a Pammachio, da parte sua, sottolinea il legame di dipendenza tra la
continenza dei chierici e quella di Cristo e di sua Madre, ambedue vergini.
Il Cristo Vergine e la Vergine Maria hanno consacrato
per ambedue i sessi gli inizi della verginità: gli apostoli furono o vergini, o
continenti dopo il matrimonio. Vescovi, presbiteri e diaconi sono scelti tra i
vergini o tra i vedovi; in ogni caso, una volta ricevuto il sacerdozio, essi,
osservano la castità perfetta[16][16].
L’Adversus Vigilantium, infine, attesta che la
disciplina della continenza dei chierici è in vigore in vaste regioni
dell'impero:
«Che farebbero le Chiese d'Oriente? Che farebbero
quelle d'Egitto e quelle della Sede apostolica, esse che accettano solo i
chierici vergini o continenti, o (se hanno avuto) una sposa, o solo se hanno
rinunciato alla vita matrimoniale?»[17][17]
La disciplina che vieta il matrimonio dopo
l'ordinazione e la disciplina della continenza perfetta, che impone ai chierici
sposati prima della loro ordinazione l'astinenza dai rapporti coniugali, sono
dunque ampiamente attestati a partire dal IV secolo dai migliori rappresentanti
dell'epoca patristica
Numerosi documenti affermano l'origine apostolica di
entrambe. Alcuni in termini espliciti, come le Decretali di Siriaco, o i
concili africani; altri, come Epifanio, l'Ambrosiaster, Ambrogio o Girolamo, in
modo indiretto, ma non meno certo. Non abbiamo alcun testo relativo a tale
obbligo del celibato per i primi tre secoli, ma non ne abbiamo neppure che ne
neghino motivatamente l'esistenza. È questo il motivo per cui si può considerare
come sufficientemente giustificata la rivendicazione dell'origine di una legge
risalente agli apostoli, così come si esprime nel IV secolo.
II. Alcuni problemi particolari
A guisa di contro-prova, conviene esaminare alcuni documenti
che sollevano un problema particolare.
Il Concilio di Elvira
Il primo è il 33° canone del Concilio di Elvira
(inizio del IV sec.)
«È parsa cosa buona vietare in senso assoluto ai
vescovi, ai presbiteri ed ai diaconi, come pure a tutti i chierici impegnati
nel ministero dì avere relazioni (coniugali) con la propria moglie e di
generare figli: se qualcuno lo fa, che sia escluso dallo stato clericale»[18][18].
Al seguito di Funk[19][19], alcuni vi
vogliono vedere il primo tentativo ufficiale per inaugurare una disciplina di
continenza perfetta per il clero. Orbene, un esame attento del documento
manifesta in tutta evidenza un contesto storico antecedente. In effetti, nulla
è detto sulla libertà di usare del matrimonio che avrebbero avuto fino ad
allora i chierici sposati. Considerata la natura dei requisiti richiesti, il
silenzio dei legislatori su questo punto si comprende più facilmente nel caso
in cui essi reiterino e confermino una pratica già in vigore, anziché nel senso
contrario. Non si impone bruscamente a degli sposi la continenza perfetta,
senza dire perché ciò che fino ad allora era permesso viene tutto d'un tratto
vietato. Soprattutto, come in questo caso, se sono previste pene canoniche nei
confronti di coloro che non ottemperano alle disposizioni impartite. Per
contro, se si trattava di rimediare a delle infrazioni nei confronti di una
regola già antica, si comprende come i vescovi spagnoli non abbiano provato il
bisogno di giustificare un provvedimento tanto severo.
Il Concilio di Nicea
Il terzo canone disciplinare del concilio riguarda la
castità dei chierici.
Il Concilio allargato ha vietato assolutamente ai
vescovi, ai presbiteri, ai diaconi ed a tutti i membri del clero di tenere con
sé una donna «co-introdotta», a meno che non si tratti della madre, di una
sorella, di una zia o comunque di una persona superiore ad ogni sospetto[20][20].
Si noti innanzi tutto che il testo non menziona le
spose tra le donne che i chierici possono ospitare nelle proprie case, che è
già il segno che ciò che sta dietro la decisione di Nicea è senza dubbio la
disciplina della continenza perfetta. Questo risulta ancora più plausibile se
pensiamo che i primi nominati, i vescovi, vi sono sempre stati sottomessi, sia
in Occidente sia in Oriente, senza eccezione alcuna. D'altronde, questo terzo
canone del primo concilio ecumenico, le cui decisioni costituirono
"la regola fondamentale che servì da modello ai
concili locali ed ecumenici successivi nelle disposizioni da essi
adottate"[21][21], è stato in
seguito costantemente interpretato dai Papi e dai concili particolari nello
stesso senso: mettere i vescovi, i presbiteri ed i diaconi, tenuti alla
continenza perfetta, al riparo dalle tentazioni femminili e garantire la loro
buona reputazione. Quando essi evocano il caso della sposa, è generalmente per
autorizzarla a vivere con il marito ordinato, ma con l'esplicita condizione che
anch'essa abbia fatto professione di continenza. Essa entrò così a far parte
della categoria delle donne «superiori ad ogni sospetto».
Secondo lo storico greco Socrate, un curioso episodio si sarebbe verificato al concilio di
Nicea. Il sinodo avrebbe voluto vietare ai vescovi, ai presbiteri ed ai diaconi
di avere delle relazioni con le loro spose; su tale argomento un certo Pafnuzio, vescovo dell'Alta Tebaide,
sarebbe intervenuto ed avrebbe dissuaso l'assemblea dal votare una legge
simile, nuova - assicurò - e che avrebbe fatto torto alla Chiesa[22][22].
Questa storia oggi è generalmente considerata un falso
per i seguenti motivi:
1.Socrate, che scrive la sua Stona Ecclesiastica nel
440, più di un secolo dopo il concilio di Nicea, non cita la sua fonte;
2.Tale racconto tardivo ha, d'altra parte, contro di
sé la testimonianza di numerosi rappresentanti dell'epoca post-nicena. Per il
periodo che va dal 325 al 440 non si trova in tutta la letteratura patristica
alcuna allusione ad un intervento di Pafnuzio.
3.Il nome di Pafnuzio non figura tra i vescovi
firmatari del Concilio di Nicea, come sostiene il Professor Winckelmann[23][23].
4.Infine, e soprattutto, l'aneddoto di Socrate non è
per nulla in armonia con la prassi della Chiesa Greca a proposito del matrimonio
dei chierici, contrariamente a ciò che a volte si è sostenuto. Nessun Concilio
prima di Nicea ha mai autorizzato i vescovi ed i presbiteri a contrarre
matrimonio, né ad usare del matrimonio che essi potevano avere contratto prima
della loro ordinazione. Il Concilio Quininsesto, che al riguardo fisserà in
modo definitivo la legislazione bizantina, conserverà saldamente la legge della
continenza perfetta per il vescovo, mentre gli altri membri del clero,
insigniti degli ordini maggiori, autorizzati a vivere con la loro moglie,
saranno tenuti alla continenza temporanea. Gli Orientali non citano mai
l'episodio di Pafnuzio. Il primo a menzionarlo sarà Matteo Blastares nel sec.
XIV.
I chierici sposati nei primi secoli
della Chiesa
La questione del matrimonio degli Apostoli
Un altro problema che merita di essere esaminato è
quello sollevato dall'esistenza di numerosi chierici sposati nei primi secoli
della Chiesa. Innanzi tutto la situazione di Pietro e forse di altri Apostoli
sposati. Al momento in cui Cristo li chiamò alla sua sequela, essi lasciarono
«tutto», compresa la propria moglie o hanno continuato come prima la propria
vita coniugale? È una questione che ciascuno tende naturalmente a porsi oggi,
lo abbiamo visto, e che è di un interesse evidente per verificare se la legge
della continenza perfetta dei chierici risalga ad un'origine apostolica, come
affermano i documenti del IV secolo. Quando i Padri africani del 390 assicurano
di voler osservare «ciò che gli Apostoli hanno insegnato», essi si riferiscono
non solo ad un insegnamento orale, ma prima di tutto all'esempio che, secondo
loro, i Dodici consegnarono alla posterità. Questo esempio infatti ha svolto,
indubbiamente, un ruolo determinante nella vita della Chiesa e
nell'organizzazione della sua disciplina. Il Nuovo Testamento ci fornisce un
solo esempio: il matrimonio di Pietro, quindi è alla Tradizione delle origini
che occorre rivolgersi per avere ulteriori indicazioni.
L'indagine, condotta attraverso la letteratura
cristiana dell'epoca, giunge alle conclusioni seguenti:
1) - All'infuori del caso di Pietro, non esiste alcuna
tradizione generale e costante sulla quale ci si possa basare per affermare con
certezza che qualche Apostolo abbia avuto moglie o figli né che fosse viceversa
celibe. Esistono due eccezioni: l'apostolo Giovanni, che una tradizione quasi
unanime riconosce essere stato vergine e l'apostolo Paolo, che la maggioranza
dei Padri ritiene non sia mai stato sposato, o, al limite, che fosse vedovo.
2) - Riguardo al modo di vivere degli apostoli
all'indomani della loro chiamata, i Padri affermano tutti, con la stessa
sicurezza, che quelli che tra loro erano stati sposati, hanno poi interrotto la
vita coniugale e praticato la continenza perfetta. Questo sorprendente consenso
dei Padri su di un punto così importante costituisce un'ermeneutica autorevole
applicabile ai passaggi del Vangelo ove si fa allusione al distacco dei
discepoli: «Allora Pietro, prendendo la parola, disse: Ecco, noi abbiamo
lasciato tutto e ti abbiamo seguito...» (Mt 19, 27). «Ed egli rispose: in
verità, vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o
genitori o figli per il Regno di Dio, che non riceva molto di più nel tempo
presente e la vita eterna nel tempo che verrà» (Lc. 18, 29-30). Il sentimento
comune dei Padri, senza eccezione, era dunque che gli apostoli fossero stati i
primi a lasciare tutto, compresa eventualmente la loro moglie, per il Regno di
Dio. Ritroviamo qui un'eco della predicazione ufficiale dei primi secoli nei
grandi centri cristiani nonché un solido argomento ispirato alla tradizione.
Esempi di chierici sposati nei primi quattro secoli
Nei primi secoli della Chiesa, vi sono numerosissimi
vescovi, presbiteri e diaconi sposati e con figli. Le comunità cristiane dell'epoca,
che vivevano intensamente del ricordo degli apostoli, consideravano
effettivamente un fatto normale l'ammissione al ministero sacerdotale di uomini
sposati. Questo era considerato un omaggio alla santità del matrimonio ed allo
stesso tempo alla scelta del Signore che aveva chiamato Pietro e, forse, altri
uomini sposati a lasciare tutto per seguirlo. I documenti pubblici ed altri
testi patristici che abbiamo letto attestano indirettamente l'esistenza di
questi chierici monogami. Per di più, i racconti dell'epoca e l'epigrafia hanno
conservato il ricordo di un buon numero di essi. Dal momento che la verità e le
scienze storiche hanno tutto da guadagnare da una conoscenza esatta dei fatti,
mi sono adoperato a redigere, attraverso le fonti disponibili, una lista dei
chierici sposati che potesse offrire una base di riflessione sufficientemente
ampia[24][24]. Per quanto
riguarda i primi sette secoli, duecentotrenta nomi di vescovi, presbiteri e
diaconi sposati fanno ora parte del «dossier». Tra di loro ci sono molti
personaggi illustri: il vescovo Antonio, di una Diocesi suburbicaria di Roma,
che fu padre del Papa Damaso
(366-384); il presbitero Giocondo, padre di Bonifacio I (416-419); il sacerdote Felice, padre di Felice III (483-492); il sacerdote
Pietro, padre di Anastasio II
(496-498); il sacerdote Giordano, padre di Agapito
I (535-536); il Suddiacono Stefano, padre di Adeodato I (615-618) e il Vescovo Teodoro, originario di
Gerusalemme, padre di Teodoro I
(642-649). Papa Ormisda, nel VI
secolo, ebbe per successore il proprio figlio Silverio (536-538) e San Gregorio
Magno ci informa che il suo trisavolo era Felice III, a sua volta figlio di un sacerdote.
Citiamo ancora: Demetrio,
Patriarca di Alessandria (il Vescovo di Origene); Gregorio l'illuminatore, primo "catholicos" armeno, e i
suoi successori della dinastia gregoridea: i "catholicos" Verthanès, Nersès il Grande e Sahaq il
Grande; Gregorio di Nissa; Gregorio di Nazianzo, detto l'Anziano; Sinesio di Cirene; Ilario di Poitiers;
Paciano di Barcellona; Severo di Ravenna; Vittore di Numidia; Eucherio di
Lione; Giuliano da Eclano; Sidoino Apollinare, vescovo di Clermont e molti
altri.
L'esame dei singoli casi evidenzia l'importanza del
concetto di celibato-continenza - o di continenza perfetta - in vista di una
valutazione adeguata della realtà clerogamica alle origini della Chiesa. La
questione alla quale deve cercare di rispondere uno storico attento in effetti
è la seguente: questo chierico sposato ha continuato a convivere materialmente
con la propria sposa anche dopo la propria ordinazione o è vissuto nella
continenza perfetta? Ignorare o eludere la questione, come a volte si fa,
equivale a sottovalutare un tratto essenziale della fisionomia del sacerdozio
in questo periodo. La lista ci mostra che non esiste alcun esempio di chierico
sposato, di cui si possa affermare che egli ha vissuto maritalmente con la
propria sposa dopo l'ordinazione, in conformità con una consuetudine
riconosciuta o con una disciplina ufficiale. Inoltre, i resoconti attestano che
alcuni vissero nella continenza perfetta, accettando una disciplina ben
stabilita, come nelle Gallie ed in Italia. In altri casi, come per la parte
dell'Armenia in comunione con Roma, la storia dei "Catholicos" consente
di supporlo fondatamente.
La disciplina delle Chiese d'Oriente
L'analisi dei documenti dei primi quattro secoli della
Chiesa, relativi al celibato sacerdotale, offre alla sintesi delle basi
sufficienti per fare del canone di Cartagine del 390 una chiave di
interpretazione perfettamente sicura. Con l'affermazione: «Ciò che gli Apostoli
hanno insegnato e che l'antichità ha sempre osservato, facciamo in modo di
osservarlo anche noi», i Padri africani, noi possiamo già presumerlo, hanno
espresso la verità della storia.
Ciononostante, ci rimane da esaminare un'ultima
obiezione, poiché la tradizione delle Chiese orientali, che ammettono
all'ordinazione degli uomini sposati ed in seguito chiedono loro solo una
continenza periodica, crea evidentemente un problema. Il documento essenziale
al riguardo è quello del Concilio Quinisesto, detto del Trullo, che resta - già
è stato giustamente sottolineato - «l'ultima parola della disciplina
ecclesiatica per la Chiesa greca»[25][25]. Ma anche la
prima. Poiché prima di tale Concilio, celebrato alla fine del sec. VII a
Costantinopoli, nessun sinodo orientale, occorre dirlo, votò una legge
contraria alle norme sulla continenza perfetta dei membri del clero che hanno
ricevuto gli ordini maggiori, così come li conosciamo dai testi che abbiamo
incontrato nei secoli anteriori. L'Assemblea bizantina del 691 adottò sette
canoni relativi al matrimonio ed alla continenza dei chierici, conservando più
di un'usanza conforme a quelle della Chiesa Universale. Essi esigevano, in
particolare, la separazione del vescovo sposato dalla sua sposa (ce. 12 e 48) e
vietava ai presbiteri ed ai diaconi di contrarre matrimonio dopo la loro
ordinazione (ce. 3 e 6). Tuttavia, sul punto della continenza richiesta ai
presbiteri ed ai diaconi sposati, i Padri riuniti «sotto la Cupola» operano
un'innovazione, autorizzando questi chierici a conservare la propria sposa e ad
osservare unicamente una continenza periodica (c. 13).
Pur assicurando di volersi pienamente conformare
«all'antica regola della stretta osservanza e della disciplina apostolica»,
essi mostrano, attraverso i riferimenti che essi stessi citano per giustificare
la propria decisione, di allontanarsi dalla linea originaria. Due autorità
tradizionali, in effetti, vengono invocate dal canone trullano: il Concilio di
Cartagine del 390 ed il VI dei canoni cosiddetti "apostolici". A
proposito di questi ultimi, il loro carattere apocrifo non consente di
riconoscerli come una testimonianza sicura sulla disciplina. E a maggior
ragione, tenendo conto di quanto si legge nel VI canone: «Che nessun vescovo,
presbitero o diacono allontani la propria sposa con il pretesto della
pietà...». Il Concilio Quinisesto parla solo dei presbiteri e dei diaconi, e
tale intenzionale omissione lascia perplessi, D'altra parte, la citazione del
canone di Cartagine, ispirata al Codex canonum Ecclesiae Africanae del 419, è
stata anch'essa fatta oggetto di un emendamento. Laddove i Padri africani
dicono: «Conviene che i santi vescovi e i presbiteri di Dio, come pure i leviti..osservino
una continenza perfetta», i
Bizantini correggono, e decidono che «anche i suddiaconi...i diaconi ed i
presbiteri si astengano dalle loro mogli
nei periodi che sono loro particolarmente (assegnati) " (kata tous
idious orous). Così, la menzione dei vescovi è scomparsa e la continenza
richiesta ai chierici «che toccano i santi misteri», è solo temporanea. Si
tratta di un errore o di un travisamento? In ogni caso, la testimonianza
principale sulla quale si fonda il Concilio Trullano per giustificare l'usanza
del matrimonio di presbiteri, diaconi e suddiaconi, è in effetti un documento
conciliare che, in un modo incontestabile, esige da costoro la continenza
perfetta e fa risalire quest' obbligo alle origini della Chiesa.
L'oggettività storica non sembra, dunque, potersi
fondare sulla certezza che sarebbe necessaria l'ipotesi secondo la quale le
Chiese d'Oriente dipenderebbero da una tradizione apostolica, mentre la
disciplina della continenza perfetta nella Chiesa Latina sarebbe il frutto di
un'evoluzione tardiva. Tutto indica piuttosto il contrario: è la Chiesa Latina
che ha conservato, per quanto concerne la continenza perfetta per i vescovi, i
presbiteri e i diaconi, la tradizione della Chiesa indivisa, inaugurata dagli
apostoli, mentre i vescovi orientali della fine del sec. VII, a motivo di
circostanze particolari, se ne sono allontanati ed hanno orientato il futuro
del loro clero in una direzione nuova[26][26].
Nonostante le loro forzate interpretazioni del canone
africano, i Padri bizantini del 691 vi si riferiscono come ad fondamento
essenziale per poter risalire ai tempi apostolici, dimostrando in tal modo
tutta l'importanza del Concilio di Cartagine del 390 per la storia della legge
sulla continenza sacerdotale.
III. Tentativo di sintesi storica
I documenti presentati in precedenza formano la parte
analitica del dossier sulle origini del celibato sacerdotale. Essi consentono
di intravedere la sintesi, poiché la ricostruzione di una storia della
continenza perfetta del clero, che ha il suo punto di partenza il tempo degli
apostoli, sembra già come il risultato logico di una serie di testimonianze
convergenti.
Per avviarsi con sicurezza sulla via della sintesi
storica, occorre anzitutto richiamarsi ad un punto fondamentale nello sviluppo
del cristianesimo, vale a dire l'esistenza della Tradizione orale. Essa è attestata in due lettere di San Paolo:
«Fratelli, state saldi e mantenete le tradizioni che avete appreso così dalla
nostra parola come dalla nostra lettera», scrive ai Tessa-lonicesi (2 Thes.
2,15); ed ai cristiani di Corinto: «Vi lodo poi perché in ogni cosa vi
ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse» (1
Cor. 11,2). I Padri si riferiscono spesso a queste parole di San Paolo e
ritengono che restare fedeli alle tradizioni ricevute «dalla viva voce»
equivalga a rimanere negli ordinamenti apostolici.
Tenerne conto non significa certo non essere fedeli al
metodo storico, come temono certuni, per i quali solo i documenti scritti fanno
fede; significa, al contrario, dotare questo metodo dello strumento di ricerca
più appropriato possibile al suo oggetto per i primi secoli del cristianesimo.
Sottovalutarli, invece, significherebbe privarsi di uno strumento di conoscenza
utile - e forse unico - grazie al quale si può conoscere ciò che è stato
vissuto nella Chiesa prima di essere detto, e soprattutto scritto[27][27].
Notiamo pure che la tradizione orale sul celibato,
alla quale ci rinviano le testimonianze del IV secolo e della Chiesa primitiva
nel suo insieme è una delle tradizioni che si sono maggiormente fondate sulle
ragioni teologiche. Effettivamente, le ragioni invocate per giustificare la
disciplina della continenza perfetta per i chierici che hanno ricevuto gli
ordini maggiori, sono, oltre alla fedeltà alla tradizione, delle considerazioni
che riguardano la dottrina: funzione di intercessione del ministero
sacerdotale, rapporto tra la continenza e l'efficacia della preghiera,
superiorità della verginità e della continenza sul matrimonio. Su questi
diversi punti, la disciplina bizantina che viene definita al Concilio Trullano
del 691 è essa stessa in perfetta consonanza con tutto il pensiero patristico[28][28].
Tale tradizione orale sul celibato sacerdotale è realmente
di origine apostolica, come mostrano i nostri documenti?
Il principio ermeneutico più appropriato per
rispondere alla questione è quello enunciato da Sant'Agostino nella
controversia con i Donatisti:
«Ciò che viene osservato da tutta la Chiesa ed è
sempre stato mantenuto, senza essere stato stabilito dai concili, è considerato
a giustissimo titolo come qualcosa che può essere stato trasmesso solo
dall'autorità apostolica»[29][29].
Il valore fondamentale di questo principio si collega
essenzialmente al fatto che la fedeltà verso la tradizione delle origini
costituisce la regola della vita della Chiesa dei primi secoli. La tendenza
generale dell'epoca patristica è di mantenere e di conservare il deposito
trasmesso, e non di innovare; al punto tale che gli stessi eretici cercavano di
coprire le loro novità con il manto degli apostoli. Formulando il suo
principio, il Vescovo di Ippona riconosce che questo orientamento garantisce la
possibilità di risalire alle sorgenti apostoliche, precisando allo stesso tempo
le condizioni necessarie per eliminare i rischi di errori, che sono queste due:
è necessario che un punto di dottrina o di disciplina «sia stato osservato da tutta la Chiesa e che sia stato sempre mantenuto».
La parte sintetica del nostro studio consiste, perciò,
nel verificare in quale misura si può affermare che la disciplina della
contenenza perfetta dei chierici, attestata dai documenti a partire dal IV
secolo, sia stata "osservata da tutta la Chiesa" e se essa sia stata "sempre
mantenuta" o meno.
1 - La tradizione
del celibato-continenza dei chierici è stata osservata da tutta la Chiesa?
Da un punto di vista storico possiamo con la massima sicurezza rispondere di
sì, poiché vediamo degli uomini, che godono di una grande autorità morale ed
intellettuale farsi garanti per tutta la Chiesa del loro tempo: non solo un
Siariaco ed un Girolamo, ma anche molti altri con loro: Eusebio di Cesarea,
Cirillo di Gerusalemme, Efrem, Epifanio, Ambrosio, l'Ambrosiaster ed i vescovi
di Cartagine. In senso contrario, nessuna voce autorevole oppone a loro una
sicura smentita. Più chiaramente ancora, abbiamo le testimonianze delle Chiese
apostoliche ed, innanzi tutto, quella della Chiesa di Roma, la quale,
attraverso le tre Decretali che ci sono note, è di un peso determinante. È a
loro riguardo che Bellarmino non
esita a dire: «Si deve credere senza ombra di dubbio che una cosa deriva dalla
tradizione apostolica, se essa è ritenuta come tale nelle Chiese dove si
conserva una successione senza fratture e continua a partire dagli apostoli»[30][30]. Ma ci sono
anche le Chiese d'Oriente e d'Egitto, di cui parla Girolamo, quelle d'Africa,
di Spagna e delle Gallie, che testimoniano tutte nello stesso senso. Anche su
questo punto, nessun concilio in comunione con Roma attesta una tradizione
diversa.
2 - Osservata
da tutta la Chiesa dei primi secoli, la tradizione del celibato-continenza del
clero è sempre stata mantenuta? Notiamo, anzitutto, che nel tempo che
decorre dalle origini della Chiesa al periodo in cui vediamo la disciplina
«osservata da tutta la Chiesa», nessuna decisione emanata da un'istanza
gerarchica legittima prova l'esistenza di una pratica contraria.
Effettivamente, i documenti autentici del concilio ecumenico di Nicea,
contrariamente a ciò che la leggenda di Pafnuzio ha spesso fatto credere, non
contengono alcuna decisione che consenta di supporre che la legge del
celibato-continenza non esistesse prima del 325. D'altronde, nessuna Chiesa
apostolica, né in Oriente né in Occidente, durante i primi secoli della Chiesa,
mette in campo una tradizione diversa per contestare le Decretali di Siriaco
(mentre la questione della data della Pasqua, ad esempio, diede luogo ad una
celebre disputa). Infine è opportuno verificare se la disciplina del
celibato-continenza non venga contraddetta dai testi della Scrittura, nel qual
caso sarebbe vano pretendere di affermare che essa sia sempre stata mantenuta.
Ora, non solo i testi scritturistici, che esortano alla continenza «per il
Regno dei Cieli» manifestano una reale connessione tra il celibato ed il
sacerdozio ministeriale, ma la consegna dell'Apostolo Paolo dell'«Unius uxoris
virum», interpretata in modo chiaro dal Magistero della Chiesa nella persona di
Siriaco e dei suoi successori come una norma apostolica destinata ad assicurare
la continenza futura dei vescovi e dei diaconi (propter continentiam futuram) segnala, fin dalle origini della
Chiesa, la comparsa di tale disciplina.
Sembra che coesista l'insieme delle condizioni,
pertanto, per poter ragionevolmente affermare che la disciplina del
celibato-continenza per i membri del Clero che avevano ricevuto gli ordini
maggiori veniva, nei primi secoli, «osservata
da tutta la chiesa» ed era «sempre
stata mantenuta». Il principio agostiniano che permette di riconoscere se
una tradizione è veramente di origine apostolica, trova qui - ne sono convinto
- una adeguata e giustificata applicazione.
Come conclusione, vorrei sottolineare che la
motivazione teologica fondamentale invocata nella letteratura patristica dei
primi secoli per giustificare la disciplina della continenza perfetta del clero
è la preghiera di intercessione.
Il concilio di Cartagine del 390 la esprime in una
formula precisa. Se i vescovi, i presbiteri e i diaconi si devono astenere dai
rapporti coniugali, è «per potere ottenere in tutta semplicità quanto essi
chiedono a Dio» {quo possint quod a Deo postulant impetrare). Quello che vale
loro questo posto privilegiato nel dialogo con Dio, è che essi sono, sempre
secondo il medesimo Concilio, «qui sacramentis inserviunt» (coloro che sono a
servizio dei sacramenti divini), «qui sacramenta contrectant» (coloro che sono
a contatto con i sacri misteri), «qui altari deserviunt» (coloro che sono
incaricati del servizio dell'Altare). Tali espressioni qualificano indistintamente
i tre gradi superiori dello stato clericale; esse indicano che un carattere
comune comporta per tutti gli stessi obblighi e che il servizio dei sacramenta
e dell'altare, vale a dire il servizio dell'Eucarestia, è il fondamento
specifico della continenza che è loro richiesta. La liturgia eucaristica fa di
colui che è al servizio dei misteri divini un mediatore, il quale, tramite la
sua unione intima con l'unico Mediatore, - per lpsum, cum Ipso et in Ipso -,
presenta a Dio le richieste degli uomini, suoi fratelli. A tale titolo, egli
deve assicurarsi le condizioni richieste per un'efficace preghiera di
intercessione, e la castità perfetta, ad imitazione di Cristo, è per lui
garanzia di essere esaudito. Il commento del canone del concilio di Cartagine del
390 da parte del grande canonista bizantino Jean Zonaras, del sec. XII, sottolineerà perfettamente questa
fondamentale idea della patristica.
«Costoro sono infatti intercessori tra Dio e gli
uomini e, stabilendo un legame tra la divinità ed il resto dei fedeli, chiedono
per il mondo intero la salute e la pace. Perciò, se essi si esercitano, come
dice il canone, nella pratica di tutte le virtù e dialogano cosi nella massima
fiducia con Dio, otterranno tutto ciò che avranno chiesto. Ma se questi stessi uomini
si privano per colpa di loro stessi della libertà di parola, in che modo
potranno dedicarsi al loro compito di intercessori a vantaggio degli altri?»[31][31].
La motivazione teologica centrale del celibato
sacerdotale è quindi direttamente ispirata alla lettera agli Ebrei. Mostrando
nel ministero dell'Eucarestia un mediatore al servizio degli uomini, chiamato a
tale titolo ad una santità di vita caratterizzata dalla castità perfetta, essa
colloca in una giusta prospettiva le altre ragioni invocate all'epoca per
giustificare il celibato-continenza, in particolare il dovere della paternità
spirituale (che sostituisce quello della generazione carnale), la necessità di
rinunciare alla «carne» per avvicinare la "santità" di Dio, l'esempio
da dare ai vergini ed ai continenti e, in una certa misura, la disponibilità
per gli incarichi apostolici[32][32].
Si può misurare in tal modo come sia inesatto parlare
di «continenza cultuale» o di «purezza cultuale», come è stato fatto troppo
spesso per tentare di svalutare il motivo fondante della legge del celibato,
fornendogli delle origini di qualità sospetta33. Tali espressioni sono cariche
di risonanze pagane o filosofiche (soprattutto stoiche), che non sono in
consonanza con lo spirito del cristianesimo. In realtà è la liturgia, e la
liturgia eucaristica soprattutto, che, attualizzando il mistero pasquale,
conduce il popolo cristiano, e ad un titolo speciale e permanente, il
«servitore dell'altare», ad una identificazione al Cristo che prega e si offre
al Padre per la salvezza del mondo. Nella celebrazione eucaristica è presente
Cristo stesso; Dio-uomo che associa i suoi ministri alla sua persona ed al suo
sacrificio, e non divinità impersonale o astratta generatrice di tabù
irrazionali. È necessario dirlo chiaramente: c'è tanta differenza tra la
«continenza cultuale» e la castità perfetta dei presbiteri di Gesù Cristo
quanta può essercene tra i culti pagani, per quanto possano essere
rispettabili, ed il sacrificio della Croce.
Nel fare riferimento agli apostoli come ai promotori
della tradizione del celibato ecclesiastico, i Padri del IV secolo ci
assicurano, inoltre, che questa tradizione è in armonia con il Vangelo, ben
lungi dall'essergli estranea come vorrebbero, invece, i suoi detrattori. La
storia e la teologia del sacerdozio sono uno nell'affermare che la continenza
dei sacerdoti di Gesù Cristo si modella su quella dell'unico Sacerdote della
Nuova Alleanza. È attraverso l'imitazione di Gesù Cristo e perché tale
imitazione si perpetui nei loro successori, che gli apostoli hanno vissuto ed
insegnato con il loro esempio la chiamata a lasciare tutto per seguirLo e
diventare così strettamente associati alla sua mediazione redentrice. Infatti,
ciò che è stato detto a proposito di Cristo nel Nuovo Testamento è stato sempre
compreso come detto anche dei suoi Sacerdoti: «Ogni sommo sacerdote, scelto fra
gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano
Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati» (Eb 5,1).
Nel corso dei secoli, la Chiesa non ha mai perso di
vista questa linea essenziale, anche se l'accento si è spostato, a volte, su
delle motivazioni rela-
33 Cf. ad esempio B. Verkamp, Cultic Purity and the Law of
Celibacy, in Review for
Religious (30) n. 2, March
1971, p. 215.
78
Christian Cochini,
tivamente secondarie, sebbene di un'importanza del
tutto incontestabile, e nonostante che si sia potuta manifestare da parte di
qualcuno la tendenza a ritornare all'Antico Testamento, «funzionalizzando» il
servizio sacerdotale e dimenticando che, investendo la sua stessa persona,
Cristo ha «portato ogni novità» 34. Infatti, falseremmo pesantemente il senso
dell"«a fortiori» utilizzato da Siriaco e dagli altri autori patristici,
quando spiegano il passaggio dalla continenza temporanea dei leviti alla
continenza perpetua dei sacerdoti della Nuova Alleanza, se vi vedessimo
soltanto un salto quantitativo, mentre l'Eucarestia realizza un cambiamento
radicale, che fa della castità dei suoi ministri una novità anch'essa senza
precedenti.
L'identità del sacerdote, questo mistero che supera
l'uomo e supera lo stesso sacerdote, non può essere espresso in modo migliore
che con le parole della lettera agli Ebrei, che è servita da motivazione
teologica alla legge del celibato fin dalle origini della Chiesa e che è stata
ancora recentemente ricordata da Papa Giovanni Paolo II:
Fin dall'inizio, il Presbitero, come scrive l'autore
della lettera agli Ebrei, «scelto fra gli uomini, viene costituito per il bene
degli uomini nelle cose che riguardano Dio» (cf Eb. 5, 1). Ecco la migliore
definizione dell'identità del Presbitero. Ogni Presbitero, secondo i doni che
gli sono stati accordati dal Creatore, può servire Dio in differenti modi ed
occuparsi, attraverso il suo ministero, di diversi settori della vita umana,
avvicinandoli a Dio. Egli resta tuttavia, e deve restare tale, un uomo scelto
tra gli altri e «costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano
Dio»35.
Christian Cochini, s. j.
34 Non si può fare a meno di richiamare qui le
splendide pagine di P. de Lubac sul rapporto tra i due Testamenti.- «Perché
l'Antico Testamento potesse essere compreso nel suo senso "vero", nel
suo senso "assoluto", era a tutti gli effetti necessario che i tempi
cambiassero che il Cristo venisse. Solamente lui poteva "infrangere il
misterioso silenzio degli enigmi profetici"; solo lui poteva aprire il
libro chiuso dai sette sigilli...» (Catholicisme, pp. 144s).
33 Discorso per il XXX anniversario della
«Presbyterirum Ordinis», 27 ottobre 1995, Osservatore Romano.