Un dono
non un’imposizione
Mentre sta tornando di attualità il dibattito sulla tradizione della Chiesa latina, che richiede il celibato a coloro che accedono agli ordini sacri, ritorna anche l’obiezione circa la presunta forzatura da parte della stessa Chiesa, la quale — si sostiene — imporrebbe per legge, a chi è chiamato al presbiterato, il celibato, che è invece un dono (carisma) dello Spirito. Conviene però chiarire bene qual è il significato della norma canonica in questa tradizionale scelta della Chiesa in Occidente.
Tralasciando la questione delle origini apostoliche del celibato legato al ministero sacerdotale — che, peraltro, sono sempre più convincenti — e limitandoci al problema del ruolo della legge canonica, giova riprendere il testo approvato il 7 dicembre 1965 dal concilio Vaticano II con 2.390 voti favorevoli dei padri conciliari (con solo 4 contrari): «Il celibato, che prima veniva raccomandato ai sacerdoti, in seguito è stato imposto per legge nella Chiesa latina a tutti coloro che si avviano a ricevere gli ordini sacri. Questo sacro Sinodo torna ad approvare e confermare tale legislazione per quanto riguarda coloro che sono destinati al presbiterato, avendo piena certezza nello Spirito che il dono del celibato, così confacente al sacerdozio della Nuova Legge, viene concesso in grande misura dal Padre, a condizione che tutti coloro che partecipano del sacerdozio di Cristo con il sacramento dell’ordine, anzi la Chiesa intera, lo richiedano con umiltà e insistenza» (Presbyterorum ordinis, n. 16).
Come si vede, il testo conciliare contiene entrambi i termini del problema: conferma che il celibato è un dono dello Spirito, ma anche che nella Chiesa latina esiste per legge il legame tra sacerdozio e celibato, che prima era solo raccomandato. La deliberazione conciliare è stata poi formulata nel nuovo Codice di diritto canonico del 1983, al canone 277 § 1, che recita: «I chierici sono obbligati ad osservare la perfetta e perpetua castità per il Regno dei cieli, per cui sono vincolati al celibato, che è un dono speciale di Dio».
Ma come conciliare i due termini della disposizione così che, da una parte, non sia stravolta la natura del carisma e, dall’altra, possa essere mantenuta la legislazione attuale? In altre parole, cosa stabilisce la legge della Chiesa, dal momento che nessuna autorità umana può imporre il celibato a chi non lo ha ricevuto come dono dallo Spirito? In realtà, con questo legame giuridico la Chiesa d’Occidente, fin dal iv secolo con il concilio di Elvira, non imponeva il celibato a chi non ne era chiamato per dono dello Spirito, ma restringeva l’ordinazione sacra a coloro che erano anche chiamati alla castità perfetta per il Regno. La legge canonica, dunque, non altera il significato del celibato come carisma che viene dallo Spirito, ma limita l’accesso al sacerdozio a coloro che, attraverso opportuno discernimento, sono dotati anche di questo prezioso dono.
A questo punto si potrebbe obiettare che così viene violato il diritto di chi si sente chiamato al sacerdozio senza aver ricevuto la chiamata al celibato. Con Paolo VI va risposto che «la vocazione sacerdotale, benché divina nella sua ispirazione, non diventa definitiva e operante senza il collaudo e la responsabilità del ministero ecclesiale; e quindi spetta all’autorità della Chiesa stabilire, secondo i tempi e i luoghi, quali debbano essere in concreto gli uomini e quali i loro requisiti, perché possano ritenersi adatti al servizio religioso e pastorale della Chiesa medesima» (Sacerdotalis caelibatus, n. 15). In altre parole, nessuno può dirsi chiamato al sacerdozio senza il discernimento da parte della Chiesa che stabilisce i criteri oggettivi per verificare l’idoneità al sacro ministero. Ne consegue che nella Chiesa latina dal iv secolo fino a oggi, nessuno può dirsi chiamato al sacerdozio, se non è anche chiamato dallo Spirito al celibato. Due sono le conseguenze di questa chiarificazione circa il rapporto tra celibato come carisma e legge canonica che lo esige per la sacra ordinazione: a nessuno viene imposto il celibato per accedere al sacerdozio e nessuno può sentirsi privato del diritto di accedere al sacerdozio se non ha ricevuto anche il dono del celibato.
Chiarito così che l’attuale legislazione non cancella la natura del celibato come carisma né viola alcun diritto soggettivo, si potrà, se si vuole, ancora discutere sulla convenienza di mantenere tale tradizione, purché non si usino false argomentazioni giuridiche non corrispondenti alla realtà. In buona sostanza, come sapientemente nella citata enciclica ricordava Paolo VI, stando la indiscutibile convenienza del legame tra sacerdozio e celibato, la radice dei problemi di infedeltà alle promesse e gli scandali passati e presenti tra i sacerdoti sono spiegabili nella maggioranza dei casi o per l’inadeguatezza della formazione al sacerdozio o per il venir meno della volontà di seguire Cristo dopo l’ordinazione oppure per errori nel discernimento vocazionale, quando viene considerato idoneo al sacerdozio chi non ha la duplice chiamata al sacerdozio e al celibato. Giustamente ancora Paolo VI ricordava che «una vita così totalmente e delicatamente impegnata nell’intimo e all’esterno, come quella del sacerdote celibe, esclude, infatti, soggetti di insufficiente equilibrio psico-fisico e morale, né si deve pretendere che la grazia supplisca in ciò la natura» (Sacerdotalis caelibatus, n. 64). D’altra parte «non si può senza riserve credere che con l’abolizione del celibato ecclesiastico crescerebbero per ciò stesso, e in misura considerevole, le sacre vocazioni: l’esperienza contemporanea delle Chiese e delle comunità ecclesiali che consentono il matrimonio ai propri ministri sembra deporre in contrario» (Sacerdotalis caelibatus, n. 49). Più di ogni altra cosa, dunque, sembra necessario rendere più efficace e attenta la formazione umana e spirituale e il discernimento vocazionale prima dell’ordinazione sacra come pure fare ogni sforzo per una reale attuazione della formazione permanente dei sacerdoti che Giovanni Paolo II definiva come «vocazione nel sacerdozio» (Pastores dabo vobis, n. 70), in cui il dono della chiamata viene continuamente ravvivato (cfr. 2 Timoteo, 1, 6) per una risposta perseverante e fedele.
Giuseppe Versaldi, Vescovo di Alessandri