CELIBATO E SOLITUDINE
Dal libro della Genesi sappiamo che Dio creò Adamo, ma
sebbene gli avesse affidato l'intera creazione, Adamo era solo. Allora Dio
disse: "non è bene che l'uomo sia solo" (Gn. 2,18) e creò la donna,
Eva, affinché riempisse il vuoto della vita di Adamo. Possiamo supporre che, in
questa originaria solitudine, Adamo si sentisse solo e che tale sensazione, pur
non dolorosa, fosse difficile da sopportare. Ora, sebbene nell'ordine oggettivo
delle cose, Adamo non fosse solo perché Dio stesso era con lui - e lo è tuttora
con ogni uomo - la presenza di Dio non colmava totalmente la sua solitudine.
Questo dimostra che il senso di solitudine dell'uomo esiste nonostante la sua
fede nell'onnipresenza di Dio. Sebbene l'uomo sia consapevole dell'esistenza di
Dio, Dio gli dà un aiuto simile a lui.
Questo episodio del Paradiso Terrestre manifesta la
duplice dimensione della vita di Adamo: il rapporto dell'uomo con Dio e quello
con le persone umane avvengono su una lunghezza d'onda diversa. La storia dell'umanità,
infatti, dimostra che l'uomo è un essere "sociale" che ha bisogno
della presenza di altre persone; ognuno di noi vive in mezzo agli altri,
nessuno è solo in questo mondo. Persino gli eremiti, che deliberatamente
scelgono la solitudine come vocazione personale, vivono nella società e
mantengono un contatto con gli altri, sebbene limitato.
Di fatto, l'uomo ha sempre bisogno degli altri uomini.
Tuttavia il senso di solitudine è talvolta più complesso ed esiste
indipendentemente dalla semplice presenza delle persone. Dipende da qualcosa di
più profondo, cioè dalla qualità del rapporto che si riesce a stabilire con gli
altri. Infatti si può avvertire la solitudine anche in mezzo alla folla quando
non si sono stabiliti rapporti personali. E ancora: noi possiamo sentirci soli
in mezzo a persone a noi vicine anche sul piano affettivo, ad esempio, persone
della famiglia. Nonostante questa vicinanza, il senso di frustrazione e di
solitudine può aumentare, perché ha origine dal nostro vissuto più profondo che
genera scontento e frustrazione.
Il senso di solitudine, causa di
nevrosi
Il senso di solitudine può determinare un senso di
tristezza, di amarezza e di abbandono, una certa alienazione quando ci si
aspetta qualcosa dall'altro e persino dall'intera società che non ci viene
data. Ognuno desidera essere accettato, ognuno desidera stabilire quella
relazione che si può chiamare amicizia, comprensione, o più semplicemente
carità, amore del prossimo.
La mancanza di una reazione positiva da parte delle
altre persone, particolarmente dolorosa quando ci si rivolge all'altro con
piena disponibilità ad amarlo ma non si viene capiti, o addirittura respinti,
questa mancanza porta inevitabilmente a reazioni depressive. Insorge nella
coscienza un senso di desolazione e di vuoto; priva di amore e di amicizia, la
persona prova amarezza, rinuncia a cercare il rapporto con gli altri e si
rinchiude in se stessa. Non ha più fiducia nel prossimo, il suo atteggiamento
autistico si radicalizza, per cui diviene impossibile stabilire con lei una
relazione più profonda.
Ma può anche avvenire che chi avverte tale vuoto
cerchi di colmarlo in vari modi. Vi è però allora il rischio di delusioni
ancora maggiori, se i rapporti momentanei non gli procurano i risultati
sperati.
Mezzi per vincere il senso di
solitudine
L'aiuto più efficace e la strada che ci è stata
indicata da Dio stesso è l'unione affettiva tra uomo e donna, cioè la
realizzazione del progetto di Dio: "crescete e moltiplicatevi" (Gn.
1,28). Nascendo da un padre e da una madre, ogni persona ha già la sicurezza di
questo vincolo primordiale con gli altri e dell'amore dei genitori e della
famiglia. È infatti la famiglia che, normalmente, lo protegge dalle
frustrazioni, sebbene anche in essa possano verificarsi situazioni capaci di
distruggere questa sicurezza di base.
È nella famiglia che si realizza l'intimità più
profonda nei rapporti interpersonali, poiché la procreazione è preceduta da un
vissuto, cioè l'atto coniugale, che la rende possibile. Questo atto, chiamato impropriamente
"sessuale", è considerato di per se stesso il modo per colmare il
vuoto della solitudine originaria dell'uomo. Di conseguenza la persona non
sposata viene chiamata "sola", il suo stato viene cioè definito
rapportandolo alla mancanza di questo tipo di relazioni. La persona
"sola" è allora quella che non ha la possibilità di compiere l'atto
sessuale. Questo è giusto se ci si riferisce alla persona non sposata, ma non è
più giusto se si esamina lo stato di solitudine. Sappiamo infatti che nel matrimonio,
dove conformemente alla sua specificità ci si aspetta un'accettazione reciproca
totale, il senso di solitudine è difficilissimo da sopportare.
Il celibato del prete e la
solitudine
L'idea che l'uomo vinca meglio la solitudine unendosi
con un'altra persona in un atto che coinvolge anche i loro corpi, dà piacere e
perfino gioia, determina un atteggiamento negativo nei confronti del celibato e
nei confronti della Chiesa che lo esige. Viene infatti definito
"disumano".
Tale convinzione può rendere più difficile vivere il
celibato, in particolare per una persona non pienamente matura. Sebbene l'età
in cui un uomo può ricevere gli Ordini Sacri sia canonicamente fissata, il
processo di maturazione può svolgersi diversamente a seconda delle persone; alcuni
poi non riescono mai a raggiungere la piena maturità. Comunque, alla luce
dell'antropologia cristiana, piena maturità equivale a santità, verso la quale
ogni uomo deve tendere durante tutta la vita, poiché lo sviluppo spirituale
della persona non conosce frontiere.
Ma il sacerdozio è proprio la vocazione che dà
all'uomo la possibilità di giungere alla maturità piena, in quanto la virilità,
come pure la femminilità, raggiungono la maturità piena attraverso la paternità
e la maternità, che sono la misura dello sviluppo dell'uomo. È ovvio che non si
tratta tanto della paternità biologica, quanto e soprattutto di quella
spirituale, che ha proprio nel sacerdozio la sua pienezza. Infatti, poiché
compito del sacerdote è "generare persone nuove", egli ha la pienezza
della paternità, che non solo lo mette in grado di contribuire allo sviluppo
del Regno di Dio sulla terra, ma gli dà anche la gioia umana della creazione.
Il sacerdozio dona la pienezza della relazione
personale. E vero che il prete rinuncia al matrimonio e alla paternità
biologica, ma condurre un'altra persona ad incontrare Dio stesso, dare il Corpo
di Cristo agli altri che, grazie a questo dono trascendono, per così dire, la
propria dimensione umana, tutto questo è fonte autentica di gioia profonda.
L'accettazione del celibato come mezzo che permette a
una persona pienamente realizzata di darsi agli altri con totalità, non
suggerisce un'idea di carenza, quanto piuttosto di pienezza. Ma ciò è possibile
solo quando la decisione di scegliere la verginità non è frutto di obbedienza
ad un obbligo imposto, ma è libera e consapevole.
Il prete e le donne
La vita di un prete si svolge prevalentemente tra le
donne, non soltanto perché più donne che uomini, in linea di massima,
frequentano la chiesa, ma soprattutto perché l'anima della donna, la sua psiche
e il suo modo di vivere la fede la indirizzano verso rapporti personali. Per
sua natura la donna si volge prevalentemente verso la persona; non sa trovare
Dio mediante una fede basata solo sulla ragione, quella ragione che ci mostra
la necessità di riconoscere Dio come Creatore e che invece convince l'uomo.
La donna cerca Dio attraverso la persona del sacerdote
e spesso vive la sua fede attraverso l'aiuto dell'uomo che la porta a Dio.
Compito del sacerdote è allora condurre quest'anima femminile, così sensibile e
complicata, senza lasciare che si fermi alla sua persona.
Ora c'è nella femminilità un certo pericolo per il
celibato del sacerdote, perché la donna può apparirgli come una creatura bella
e affascinante. La donna si avvicina al prete, spinta -per così dire- dal
bisogno profondo di essere accettata, specialmente quando si sente sola e cerca
appoggio. Il prete, a sua volta, può non riuscire a salvaguardare un corretto
atteggiamento di padre e di fratello.
Talvolta il sacerdote, nei confronti delle donne,
assume un atteggiamento non corretto, cioè un atteggiamento di fuga. Questo può
condurre a una reazione di feedback: la persona rifiutata diventa
improvvisamente attraente.
Compito del prete verso la donna è mostrargli Dio,
aiutarla ad approfondire la sua coscienza religiosa, risvegliare la sua pietà,
guidarla verso Dio. Ciò è più facile con le donne che con gli uomini, perché
più dell'uomo la donna è incline a donarsi in tal modo. In una parola, il prete
deve divenire un padre spirituale, un direttore spirituale. L'agiografia ci
mostra numerosi esempi e la storia della Chiesa testimonia l'esistenza di
grandi confessori e di donne sante, la cui santità si è sviluppata sotto la
guida di quei confessori.
Le minacce interiori al sacerdozio
Non tanto la donna costituisce un pericolo per il
celibato sacerdotale, quanto quel profondo senso di solitudine, più frequente e
dannoso, che sempre è segno della mancanza di vincoli personali profondi con il
Dio vivente. Talvolta può anche essere causato da una situazione oggettiva o
dalle stesse caratteristiche della personalità del sacerdote, non correttamente
sviluppata.
Se un prete considera il celibato una necessità di cui
non comprende il significato; se, inoltre, egli non coglie il vero significato
della sessualità umana, finalizzata alla procreazione, può provare a superare
questo senso di solitudine mediante esperienze diverse, chiamate
"sessuali". Anche il permissivismo etico, sempre crescente, potrebbe
indurlo a cercare esperienze giudicate necessarie allo sviluppo della
personalità. Inoltre la verginità può essere facilmente considerata uno stato
che, sebbene conosciuto da tutti all'inizio della vita, non costituisca di per
sé un valore. È infatti un valore particolarmente minacciato dalle attuali idee
della psicologia e della sociologia.
Un esatto concetto di virilità capace di
"autodominio" e di "autodeterminazione" permette di vivere
un celibato libero da conflitti interiori. Ciò però è possibile solo a
determinate condizioni:
a) non è
possibile vivere lo stato di castità solo aderendo ad un veto, anche quando è
stato interiorizzato. Non perché è proibito, il prete deve rinunziare alle
esperienze sessuali, ma perché ha scelto un valore più grande, cioè la pienezza
della sua personalità che egli consacra al compito più alto: la diffusione del
Regno di Dio.
b) La
rinuncia al matrimonio comporta un sacrificio autentico; è la prova che si è
compreso l'amore totale a Dio come Persona. Colmato da Dio di tanti beni,
l'uomo ha in qualche modo l'occasione di restituirglieli in uno slancio
personale di gratitudine: per amore egli vuole donarsi a Dio interamente. Così
egli rinunzia alla possibilità di formarsi una famiglia, alla gioia della
paternità e all'unione amorosa con una donna in cambio di una pienezza di
paternità e di un amore universale che egli può in tal modo realizzare. Il dono
totale di sé a Dio, infatti, non si attua che nel celibato, perché la rinunzia
che comporta costituisce un grande merito, in quanto il matrimonio è un bene
autentico. Ovviamente la rinunzia ai peccati della carne e ad altri peccati non
può essere ritenuta un merito particolare o un sacrificio. Oggi spesso si
dimentica che osservare il 6° comandamento è dovere di ogni credente.
c) La lotta con se stessi per la propria santità è
dovere di ogni cristiano. In questo cammino il prete è in una situazione di
vantaggio rispetto a un celibe laico, perché egli non soltanto usufruisce della
grazia del Sacramento, ma ha anche un programma di vita che favorisce la
santificazione. La Santa Messa quotidiana e, spesso anche l'abitazione presso
una chiesa o una cappella, gli rende possibile usufruire della presenza del Dio
vivo nel tabernacolo... purché la fede del sacerdote sia viva e reale, e egli
abbia un senso profondo del sacro.
d) Solo chi vive in costante contatto con Dio può
raggiungere la dimensione piena del sacerdozio, che offre possibilità di
realizzazione come nessun'altra vocazione in questo mondo. Solo una preghiera
che non sia ripetizione di parole note, spesso sempre le stesse, ma costante
ricerca della verità di Dio e della dimensione divina di ogni cosa, solo la
preghiera può salvaguardare l'autentico stile di vita di un prete. Giovanni
Paolo II, quando parla del celibato sacerdotale, aggiunge sempre la parola
"santo", perché giustamente deve essere santo, deve essere una
pienezza di vita soprannaturale. La crisi del celibato del sacerdote, che
attualmente constatiamo, comincia sempre dalla mancanza della preghiera e dal
peccato che inaridisce la fonte della forza. Solo più tardi subentra
l'interpretazione che ne ricerca la giustificazione nella filosofia e nella
psicologia. Un prete che ha trascurato la preghiera e ha rinunziato alla lotta
per la santità aderirà al sistema filosofico e teologico che si accorda con il
suo modo di essere, ma non con il piano di Dio.
e) Ogni uomo desidera amare ed essere amato. Per la
persona umana l'amore è il suo ambiente naturale. Creata da una sovrabbondanza
d'amore di Dio, riceve la vita per realizzare l'amore sulla terra. Cristo pone
chiaramente l'amore quale compito principale dell'uomo. Il comandamento
"amatevi gli uni gli altri" riguarda tutti e ciascuno, e non esclude
affatto il prete.
Ma che cos'è l'amore? Se noi poniamo sullo stesso
piano amore e attività sessuale, il celibato non può non apparire l'opposto
dell'amore. Ma se noi distinguiamo il rapporto interpersonale e l'atto che
appartiene unicamente agli sposi, se noi liberiamo l'amore interpersonale dalla
concupiscenza, noi realizzeremo l'amore puro, che Giovanni Paolo II chiama
"l'amore bello", nel quale l'uomo scopre l'altro come qualcuno che lo
capisce e cammina nella stessa direzione, che Io conosce e lo accetta. Tale
amore vero, autentico non è un'utopia, ma un dovere da compiere. Indubbiamente
richiede fatica, non è facile, ma è possibile realizzarlo. Si attua allora ciò
che Giovanni Paolo II chiama "communio sanctorum", di cui è esempio
l'amore di Francesco e Santa Chiara.
"Electio Dei"
Il sacerdozio, pertanto, è un dono personale di Dio e
non una semplice professione; come tale deve essere realizzato nella
consapevolezza di essere stati scelti da Dio stesso. Una cura per la solitudine
si trova allora nella consapevolezza di questo grande privilegio. Essere scelti
da Dio significa vivere della vita di Dio stesso in una intimità che esclude la
solitudine. Dio fa partecipe l'uomo del suo stesso Essere, gli dà il potere di
assolvere i peccati, cioè il potere salvifico, gli dà tutto se stesso. Un prete
è, per cosi dire, immerso nella vita di Dio ed in tal modo realizza se stesso.
Il dono del sacerdozio non ha eguali e questa consapevolezza dovrebbe divenire
fonte di gioia e di gratitudine perenni.
Il sacerdozio apre alla piena realizzazione delle
possibilità umane anche sul piano della vita ordinaria. Le straordinarie
finalità dell'attività pastorale permettono all'uomo di sviluppare tutte le sue
capacità. È una pienezza di vita, ma la gioia che essa dà dipende
essenzialmente dal vivere in un atteggiamento di umiltà, dal capire che tutto è
stato dato gratuitamente, che la sola risposta a questo dono è cantare con la
propria vita un inno di gratitudine. Gioia e gratitudine non lasciano posto
alla solitudine. Il compito di contribuire ad instaurare il Regno di Dio sulla
terra è il massimo delle aspirazioni umane.
Wanda Połtawska