Articoli , pensieri e riflessioni sul celibato sacerdotale (o celibato ecclesiastico) e sulla castità come consiglio evangelico.
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domenica 27 gennaio 2013

Stefan Heid, prefazione a Origini apostoliche del celibato sacerdotale di Christian Cochini.


Stefan Heid, prefazione a Origini apostoliche del celibato sacerdotale di Christian Cochini. Traduzione di Alberto Perlasca, pubblicata nel L’Osservatore Romano, venerdì 8 aprile 2011.



Tre decenni dopo l’apparizione del volume Origines apostoliques du célibat sacerdotal (Namur-Paris, Le Sycomore - Lethielleux, 1981) del gesuita Christian Cochini si può senz’altro affermare che si tratta di un libro di svolta, che ha elevato ad un livello nuovo la ricerca fino ad allora condotta sul celibato. Si può condividere o meno l’analisi storica dell’Autore. Certo è che con essa si è raggiunto un point of no return per gli studi successivi. Nel 1990 è uscita la traduzione americana, The apostolic origins of priestly celibacy (San Francisco, Ignatius Press). Nel 2006 la seconda edizione in lingua francese, Les origines apostoliques du célibat sacerdotal (Gèneve-Paris, Éditions Ad Solem). C’è voluto del tempo perché la corporazione degli storici della Chiesa prendesse atto e recepisse questo ampio volume, e con le consuete riserve. Nei dizionari e nei manuali più diffusi il libro è entrato ancor meno, e quasi per nulla nella discussione organizzata dai massmedia sul celibato, che ancor oggi rimane ingessata nei postulati della sua ben nota ignoranza. Anche il confronto intraecclesiale sul futuro del celibato non ha tratto quasi nessun profitto dai risultati di questo studio pionieristico.

Deve essere, invece, positivo il bilancio che Origines apostoliques ha avuto nella ristretta cerchia della ricerca erudita. Cochini ha fatto uscire gli studi sul celibato da un vicolo cieco e ha aperto nuovi percorsi. Questa strada senza uscita era stata imboccata con il libro Les origines du célibat ecclésiastique (1970) di Roger Gryson, che, per dieci anni, ha dominato la scena in modo incontrastato. A suo parere, il celibato si era infiltrato come forma di ascesi ostile al corpo e come paura derivante da un tabù cultuale in una Chiesa ri-paganizzata e ri-giudaizzata, e ciò dapprima come ideale del celibato, e poi, alla fine del iv secolo, come obbligo della continenza anche per i chierici sposati. Insomma, ai Papi sarebbe riuscito di imporre la regola della continenza almeno nella Chiesa occidentale. Il consenso sul libro di Gryson fu grande, e subito se ne trassero le conseguenze: la via del ritorno al puro Vangelo non potrebbe che passare attraverso l’abolizione o almeno la libera scelta del celibato. Nell’euforia dell’epoca postconciliare molti la pensavano così. Il celibato sembrò un relitto disciplinare del Medioevo senza alcuna plausibilità. Ci si attendeva, al più tardi con il nuovo Codex iuris canonici (1983), la sua silenziosa sepoltura.

La fossa era già scavata, ma non vi fu alcuna sepoltura. Si era dichiarato morto troppo presto il celibato? Nonostante il successo conseguito, di cui Gryson, in un saggio del 1980, trasse un soddisfatto bilancio, il suo libro non sembrò aver determinato alcuna svolta. Da cosa dipese ciò? Non poteva certo restare a lungo nascosto il fatto che Gryson avesse letto i testi fuori dal loro contesto, o, per meglio dire: contra sensum Ecclesiae. Tali interpretazioni unilaterali, nelle quali l’onnisciente uomo moderno condanna il passato, vengono però sempre punite; è solo questione di tempo, perché studi del genere vengano riesaminati.

L’alta scientificità dell’opera di Gryson è indubbia, ma la prospettiva a partire dalla quale egli scriveva puntava nella direzione sbagliata e, presto o tardi, doveva essere superata. Gryson, come storico, credeva di dover constatare che il cristianesimo originariamente puro, non ostile al corpo, non paganizzato né giudaizzato, nel corso dei primi secoli era stato deformato e distorto da un’ostilità alla corporeità di marca pagana e giudaica. Le valutazioni che Gryson nella sua analitica scientificità forniva, erano molto discutibili, perché provenivano dal nostro pregiudizio moderno, con cui c’impanchiamo a giudici della cristianità primitiva. Inoltre, benché inespresso, dietro a tutto ciò covava quell’antigiudaismo accademico, che ritiene che qualcosa sia falso e non cristiano soltanto perché ebraico. È però ormai giunto il momento in cui questo meccanismo del pensiero venga sbloccato e che si smetta di portare ancora avanti l’antigiudaismo della Chiesa antica, diffondendo lo spauracchio del timore legato al culto giudaico dei primi cristiani. Così naturalmente dallo studio di Gyson venne subito dedotta l’esigenza reazionaria di far ritornare lo sviluppo ecclesiale alla sorgente evangelica e di congelarlo in tale stadio, quello cioè di un presunto celibato volontario. Al contrario, l’autentico concetto di riforma ecclesiale non conosce un’immobile Chiesa delle origini, che dovrebbe restare sempre così com’era una volta. Quand’anche il celibato fosse stato introdotto gradualmente — cosa che Cochini contesta certamente con buoni argomenti — con ciò non sarebbe ancora chiarita la questione della sua legittimità.

Il disagio che causa il libro di Gryson sta più esattamente nel fatto che in un ambiente ostile alla corporeità del cristianesimo primitivo (vedi manicheismo) egli nasconde la veemente critica da parte dei teologi della Chiesa verso ogni forma di ostilità per il corpo. Egli, però, trascura di notare che la Chiesa antica, nonostante il suo atteggiamento di rifiuto verso la legalità giudaica (compresa la legge rituale), non ha affatto combattuto la continenza del personale ebraico addetto al culto, ma l’ha soltanto criticata in quanto insufficiente.

In altre parole: i teologi della Chiesa antica non erano ciecamente ingabbiati in un’ostilità al corpo e in una paura del tabù, ma consideravano la continenza dei chierici come legittima e giustificata a partire dal Vangelo. In questo senso Gryson ha letto le fonti contra sensum Ecclesiae. Le autorità ecclesiali della fine del iv secolo e dell’inizio del v secolo hanno infatti considerato la continenza dei chierici come prassi apostolica, qualcosa che costituiva una ferma tradizione della Chiesa. Non hanno avuto il minimo problema teologico con questo. Hanno forse un po’ mentito? Hanno manipolato? Se lo sono immaginato? Hanno letto in modo falso oppure frainteso o mal interpretato quegli scritti, che anche per noi sono la base della nostra conoscenza storica? Hanno mirato ad un’innovazione radicale o, più di tutto, «riformato» nel senso in cui la riforma è stata sempre intesa, cioè come conferma e adattamento della disciplina antica ad un nuovo periodo?

Qui si innesta un’altra considerazione. Il libro di Gryson era un figlio del suo tempo. I decenni dopo il Concilio furono segnati da una desacralizzazione su un ampio fronte. Si posero in discussione concetti fondamentali quali culto, consacrazione e sacralità. Ovunque aleggiava il sospetto di magia. Tabù e magia erano però realtà stupide, anteriori all’illuminismo, adatte ad una Chiesa medievale, che metteva i fedeli sotto tutela. Il popolo di Dio pellegrinante quale nuovo leitmotiv ecclesiologico non aveva bisogno di tempio e sacerdoti, ma di esploratori e visionari. Il verdetto storico, che smaschera il celibato come paura da tabù giudaica, veniva lì proprio a proposito. Certamente analisi del genere erano mosse dalla buona volontà di parlare del Vangelo nel presente, di avere un dialogo con un’epoca che nel frattempo veniva definita come «secolare» (Charles Taylor). Ma Gesù Cristo ha davvero demonizzato il culto? Ha annullato la consacrazione? Non ha interpretato la sua morte come sacrificio? Oppure la lettera agli Ebrei ha distorto tutto e ridicolizzato la reale intenzione di Cristo? Il rapporto fra il sacerdozio di Cristo e la sua continenza è una coincidenza? L’Eucaristia viene compresa in maniera falsa, quando viene celebrata come culto visibile? Il culto può non avere nulla a che fare con la continenza? Purezza e illibatezza sono solo pii fantasmi o addirittura perverse rimozioni? L’Eucaristia è santa laddove anche l’impuro è dichiarato puro?

Porsi queste domande, manifesta l’intero dilemma: il celibato non è una mera disciplina, ma è profondamente teologico, e ciò appare proprio quando si guarda da vicino anche alla sua storia. Deve comunque balzare all’occhio come la continenza dei chierici non sia mai stata motivata dall’ascetismo praticato dal monachesimo, ma sempre a partire dal sacerdozio. Se però alcuni pensano che il celibato debba restare riservato a delle vocazioni ascetiche, non sarebbe stato allora coerente rifiutare come ostile alla corporeità il celibato in sé insieme al monachesimo? Se, invece, il celibato era motivato a partire dal sacerdozio e quindi anche dal culto, non si sarebbe dovuto coerentemente abbandonare con il celibato anche il culto? Semplicemente non si può capire il celibato, se si mettono a tacere la teologia e le questioni fondamentali della storia della religione: che cos’è un sacrificio? Che cos’è il sacerdozio? Che cos’è l’espiazione? Non si tratta qui in primo luogo della questione di quando esattamente si sia dato un celibato. Si tratta invece della fondatezza di un processo che si è realizzato così presto e in modo così coerente, che ha trovato sostenitori e annunciatori così decisi, al punto che non si può fissare alcun momento in cui ebbe inizio il presunto falso sviluppo: il declino cominciò già nel Nuovo Testamento o solo con Origine o con i Papi Siricio e Innocenzo? Per la Chiesa antica la continenza dei chierici fu in ogni caso una prassi teologicamente rilevante e solo quando si dichiara superata la sottostante teologia, divengono obsoleti anche culto e continenza nel migliore dei casi come «mera disciplina» tratta magicamente dal cilindro.

Se tutto non inganna, vi è una svolta, in quanto la ricerca nuovamente vede questi collegamenti e si spinge proprio nella profondità teologica. È merito di Cochini aver posto la base storica per questo. Egli, nella miglior tradizione degli studiosi gesuiti, sine ira et studio ha sollevato obiezione.

Ha nuovamente valorizzato i risultati dello studioso Gustav Bickell — Der Zölibat eine apostolische Anordnung (1878) — resi tanto spregevoli da Franz Xaver Funk. Bickell, con la sua difesa dell’apostolicità della continenza dei chierici, aveva ancora più ragione, come noi ora sappiamo, dopo che si è potuto smascherare come leggenda la decisione anticelibataria del Concilio di Nicea (325). Cochini ha trovato un’eco nella ricerca seria attraverso numerose recensioni e contributi circa le singole questioni. Vi è inoltre una serie di studi monografici (Cholij, Stickler, Heid, McGovern), che hanno del tutto sostenuto la sua linea e l’hanno arricchita con ulteriori osservazioni. Quella di Cochini è nel frattempo considerata un’opera che funge da modello nella trattazione di questo argomento e tale rimarrà per l’ampiezza e la profondità dell’analisi da lui condotta. Le sue tesi sono ormai recepite e discusse dalla letteratura scientifica inglese, tedesca e italiana. La traduzione italiana qui presentata promuoverà ulteriormente questo processo, e, da questo punto di vista, presta un importante servizio alla scienza

Con il concilio Vaticano II, insieme ad altri aspetti della vita ecclesiale, anche il celibato è entrato nella sua crisi globale. Non è stata di gran lunga la sua prima crisi e neppure quella più pericolosa, se si pensa quale drammatico declino, già alcuni secoli fa, esso sperimentò in Germania (Riforma) e in Francia (Gallicanesimo), senza che però sia stato abbandonato dalla Chiesa universale. Al concilio stesso il celibato sacerdotale non era certamente ancora controverso, anche se alcuni vescovi, tornando da Roma, fecero intravedere una pronta abolizione del «celibato obbligatorio». Durante il concilio le cose presero però un’altra piega, allorché venne reintrodotto il diaconato permanente e fin dall’inizio si aspirò ad avere anche diaconi uxorati. Allora fu il canonista e salesiano Alfons M. Stickler, il quale, coraggiosamente, ma invano, attirò l’attenzione sul fatto che l’intera tradizione del celibato aveva sempre comportato la duratura continenza dei chierici maggiori uxorati. Il concilio non si è espresso al riguardo, e da allora è controverso se la tradizione giuridica e dottrinale postconciliare richieda dai diaconi permanenti una tale continenza. Qui c’è un urgente bisogno di chiarimento.

Stickler ha avuto il merito di aver detto la cosa giusta al momento giusto sulla continenza dei diaconi. In questo non poté fare a meno di includere anche preti e vescovi nella sua ricerca, dato che la disciplina dell’astinenza veniva imposta in uguale maniera a tutti i chierici superiori, dal diacono fino al vescovo. Stickler rimase allora inascoltato. Nel frattempo, però, altri storici della Chiesa e canonisti si occuparono del tema, non ultimo Christian Cochini, che da una prospettiva storica andò a fondo della questione. Con il passare del tempo egli ha ottenuto uno schiacciante sostegno, anche se restano ancora degli studiosi che lo ignorano o lo rifiutano. Una cosa è certa: chi oggi si appresta a scrivere la «storia del celibato», e con ciò intende solo l’astenersi dalle nozze, falsifica la storia. A partire da Cochini la «storia del celibato» va compresa come una «storia della continenza dei chierici»: tutti i chierici maggiori — diaconi, sacerdoti e vescovi — dal giorno della loro ordinazione dovevano vivere totalmente continenti, sia che fossero sposati, vedovi o vergini («celibato di continenza»).

Questa disciplina venne formulata in tutta chiarezza dalla fine del IV secolo dai Papi (Damaso, Siricio, Innocenzo); in ciò essi si venivano sostenuti dal fatto che da parte dei vescovi — in Roma, Africa del nord, Spagna e Gallia — non si registrarono riserve storiche o teologiche. Da Stickler, Cochini ha assunto il decisivo approccio ermeneutico. L’illustre studioso salesiano ha sottolineato il fatto incontrovertibile che il diritto (ius) per secoli ha funzionato prima che fosse formulata la legge (lex). In altre parole: «nuove» leggi non vengono estratte magicamente dal nulla, ma assumono una prassi giuridica spesso plurisecolare. Se così non fosse, le leggi non potrebbero imporsi, tanto più che la Chiesa allora non possedeva alcuna possibilità di esecuzione forzata. Inoltre, non ci sarebbe da aspettarsi praticamente nient’altro dall’autocomprensione conservatrice della Chiesa, se non che si orientasse alla prassi della storia. Anche quando i Papi dalla fine del iv secolo prescrissero la continenza dei chierici, questa non era, ovviamente, un’innovazione. Essi hanno semplicemente trasfuso in una legge una prassi ampiamente testimoniata. Cochini cerca di dimostrare che in realtà, per quanto riguarda la continenza dei chierici, i Papi Siricio e Innocenzo, nonché le citate assemblee dei vescovi, hanno ritenuto che si trattasse una tradizione apostolica secolare.

Proprio questa tesi ha incontrato — come era prevedibile — delle critiche presso altri studiosi. Non condivido questa critica, perché la continenza del clero è così densamente testimoniata nel iv e nel III secolo, questa tradizione in modo così riconoscibile conduce indietro al ii secolo e trova tante chiare corrispondenze negli insegnamenti del Nuovo Testamento e nell’agire di Cristo stesso, che nessuno ha potuto elaborare una confutazione complessiva di Cochini, e, anche per il futuro, si può presumere che nessuno potrà farla.

È giusto dire che lo storico può lavorare solo con probabilità. Così anche Cochini ha presentato una tesi con alta probabilità storica. Da questo punto di vista, la storia è un calcolo delle probabilità; non esiste alcuna sicurezza assoluta. In tale computo, però, non devono essere considerati solo i testi, che forse possono non parlare chiaramente di una legge del celibato, ma uno storico deve tener conto, secondo tutte le regole dell’arte, dell’ambiente, della mentalità, dei processi della tradizione e dei meccanismi interni della vita ecclesiale, per essere moralmente certo del suo risultato.

Cochini ha fatto esattamente questo, e qui sta la sua forza. Con una convincente profondità ha introdotto nella discussione innumerevoli aspetti nuovi, il che rende le cose molto difficili ai suoi critici. Anch’io a suo tempo ho controllato ancora una volta i testi dei Padri relativi all’argomento del celibato, proprio per confrontarli con Gryson e, inizialmente, senza riferimento all’opera di Cochini. Da parte mia, non posso far altro che ripetere che la probabilità storica è davvero a favore di una prassi della continenza dei chierici dal tempo più antico tanto in Oriente come in Occidente. Naturalmente con ciò resta intatta la constatazione che abbiamo una documentazione di gran lunga incompleta circa tutti i periodi e tutte le regioni per i primi secoli e che la ricerca storica rimane fondamentalmente aperta a nuove acquisizioni.

La situazione sulla base del volume di Cochini si presenta ora così: Papa Siricio sostenne che, per quanto riguarda la continenza dei chierici, si trattava di una tradizione apostolica irrefutabile, biblicamente fondata. Questo è una dichiarazione magisteriale che sicuramente non intende affermare altro se non che la continenza dei chierici sia di diritto divino e perciò non possa essere abbandonata. Ora, Cochini ha potuto indicare che c’era effettivamente una prassi permanente di continenza, alla quale il Papa poteva giustamente appellarsi. Anche quando, nel corso della storia fino ad oggi, si registrano voci che non accettano questa probabilità storica, non si può giustificarle dal punto di vista storico. Siricio, a suo tempo, ha deciso quale fosse la forma di lettura autentica per la Chiesa. I Pontefici successivi furono liberi di associarsi o meno a lui. Per quanto io veda, tutti i Papi, a partire da Innocenzo, hanno finora espressamente o tacitamente accettato la sua opinione dottrinale.

Lo studio di Cochini è orientato storicamente, ma da sola la storia non basta per comprendere appieno la continenza del clero. Devono subentrare anche la teologia e la spiritualità e il diritto civile e canonico. A tal fine Cochini, mediante un’elaborazione autenticamente interdisciplinare, offre le coordinate di base che sono decisive per l’ulteriore ricerca. Da quando al Concilio di Trento (1545-1563) si impose definitivamente la restrizione del clero superiore a candidati non sposati, la teologia del celibato venne sempre costruita a partire dall’astensione dal matrimonio. Ciò è legittimo, perché qui si parte dalla forma di continenza attuale, voluta dalla Chiesa (appunto l’astensione dal matrimonio). Considerando però le radici storiche del celibato sacerdotale, la teologia deve impegnarsi per la continenza e la rinuncia alla generazione («eunuchi per il Regno dei Cieli») e deve in ugual misura comprendere quindi diaconi, preti e vescovi. Qui viene aperto un ampio campo che risulta ancora poco lavorato. Per il futuro del celibato ciò sarà cruciale così da renderlo plausibile nel contesto storico e spirituale dell’ «età secolare».