Gianni
Gennari, collaboratore regolare del quotidiano dei vescovi “Avvenire”,
ha affrontato, su “Il Foglio” del 2 aprile, il tema forte del celibato
ecclesiastico, riproponendone (non è la prima volta) la modifica o
l’abolizione. La tesi di Gennari è che la legge sul celibato dei preti
non risale a Gesù Cristo e non è materia di fede, e perciò non può
considerarsi intoccabile. Insorgendo contro un recente articolo del
cardinale Mauro Piacenza, apparso in prima pagina sul ’”Osservatore
Romano” (Questione di radicalità evangelica, , 23 marzo 2011), il
corsivista di “Avvenire” arriva a definire la difesa del celibato fatta
dal card. Piacenza come “dottrinalmente infondata”, “sottilmente
violenta” e, addirittura, offensiva di “duemila anni di storia della
Chiesa cattolica”.
Ma ciò che ancor più lo irrita è il cambiamento in materia del cardinale Ratzinger che, nel 1970 condivise un manifesto teologico che chiedeva di ripensare il legame tra sacerdozio e celibato, mentre oggi, come Benedetto XVI, ribadisce che il celibato ecclesiastico deve essere considerato un “valore sacro” per i sacerdoti di rito latino.
Ma ciò che ancor più lo irrita è il cambiamento in materia del cardinale Ratzinger che, nel 1970 condivise un manifesto teologico che chiedeva di ripensare il legame tra sacerdozio e celibato, mentre oggi, come Benedetto XVI, ribadisce che il celibato ecclesiastico deve essere considerato un “valore sacro” per i sacerdoti di rito latino.
Gennari
conclude il suo articolo auspicando che di fronte a nuove situazioni e
nuove urgenze, “il Papa possa tornare a certe convinzioni manifestate
apertamente dal teologo”, anche perché ormai “esistono le condizioni per
una prudente prassi diversa” e “nelle opinioni e nelle decisioni dei
Papi possono verificarsi veri cambiamenti”. Gennari tiene infine a
sottolineare che la sua richiesta del matrimonio dei preti è ben
distinta da quella dell’ordinazione sacerdotale delle donne, sulla quale
c’è stata anche di recente “la riaffermazione della prassi contraria,
legata al fatto che la coscienza della Chiesa, interpretata al livello
della massima autorità, non è tale da permettere di superare la
disciplina attuale fondata sull’esempio di Cristo stesso e di duemila
anni di storia continua”.
E’ da qui
che occorre partire: dall’idea di Gennari secondo cui nella Chiesa
verità e leggi possano evolvere secondo l’esperienza religiosa (prassi)
del popolo cristiano. A questa concezione evoluzionistica si oppone la
dottrina della Chiesa, secondo cui esiste un depositum fidei, contenuto
nella Tradizione cattolica, che la Chiesa può esplicitare, ma mai
innovare. Gesù infatti non mise per scritto il suo insegnamento, ma lo
affidò alla sua Parola, che poi trasmise agli Apostoli perché la
diffondessero ad ogni angolo della terra. Il deposito della Fede fu
conservato soprattutto nella Tradizione orale della Chiesa, che
precedette le Sacre Scritture e contiene elementi che nelle Scritture
non risultano. Il fatto che il Papa sia vescovo di Roma o che sette
siano i Sacramenti non discende, ad esempio dalla Scrittura, ma dalla
Tradizione, che è infallibilmente assistita dallo Spirito Santo. La
questione che allora si pone è se la legge del celibato ecclesiastico,
oltre ad essere una plurisecolare prassi ecclesiastica, discenda o no
dalla Tradizione divino-apostolica della Chiesa.
Soccorrono
su questo punto alcuni importanti studi sull’origine del celibato
ecclesiastico. Il primo, più volte ristampato dalla Libreria Editrice
Vaticana, è il saggio del cardinale Alfons Maria Stickler, Il celibato
ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici; il secondo,
meno noto, ma non meno importante, è quello del padre Christian Cochini,
appena tradotto in lingua italiana dalla casa editrice Nova Millennium
Romae, con il titolo Origini apostoliche del celibato sacerdotale. Tali
opere ribaltano la vecchia tesi del padre Franz Xaver Funck, un gesuita
aperto alle suggestioni del modernismo, che agli inizi del Novecento,
riteneva di confutare il grande orientalista Gustav Bickell. Mentre
Bickell sosteneva il fondamento divino-apostolico della legge del
celibato, Funck la considerava una prassi ecclesiastica emersa non prima
del IV secolo, ovvero una legge di carattere storico (e perciò
riformabile). Cochini dimostra che Funck non fece buon uso del metodo
storico-critico, prendendo per buono un documento spurio in cui il
vescovo-monaco Pafnuzio, nel corso del Concilio di Nicea (325) avrebbe
contestato aspramente la continenza per i preti sposati. Oggi è provato
che tale testo fu elaborato probabilmente all’interno della setta dei
Novaziani. Stickler, da parte sua, sottolinea l’errore ermeneutico di
chi, sulla scia di Funck, ha confuso i concetti di ius (diritto) e di
lex (legge).
Il fatto
che prima del IV secolo mancasse una legge scritta, non significa che
non esistesse una norma giuridica obbligatoria che imponesse la
continenza del clero. Quando Papa Siricio, negli anni 385-386, con le
decretali “Directa” e “Cum in unum”, formalizzò per la prima volta una
disciplina per chierici, stabilendo che vescovi, sacerdoti e diaconi
erano tenuti, senza eccezioni, a vivere permanentemente nella
continenza, egli non introdusse una nuova dottrina, ma codificò una
Tradizione, vissuta nella Chiesa fin dalle origini. Il progresso
teologico consiste proprio in questo: nello sviluppo della conoscenza di
un precetto tradizionale, in questo caso il celibato ecclesiastico, che
può meglio essere spiegato in estensione, chiarezza e certezza. A ciò
conducono le edizioni critiche e i nuovi documenti di lavoro sui primi
secoli di cui oggi dispongono gli studiosi.
L’unico
argomento che viene addotto da Gennari contro questa tesi ruota attorno
ad un sofisma sempre confutato e sempre ripetuto: il fatto cioè, in
apparente contraddizione con la tradizione apostolica, che a partire
dagli Apostoli stessi, i primi cristiani fossero sposati. Ciò che è in
questione però non è l’ordinazione di uomini sposati nei primi secoli
del cristianesimo. Sappiamo che ciò era cosa normale, se san Paolo
prescrive ai suoi discepoli Tito e Timoteo che i candidati al sacerdozio
dovevano essere stati sposati solo una volta (1 Tm 3,2; 3, 12). La
questione centrale è quella della continenza da ogni uso del matrimonio,
dopo l’ordinazione sacerdotale. Non bisogna confondere infatti lo stato
di matrimonio con l’uso dello stesso. Il matrimonio è un’istituzione di
carattere giuridico morale, elevata dalla Chiesa a sacramento, il cui
fine è la propagazione del genere umano. L’uso del matrimonio è invece
l’unione fisica di due sposi, diretta alla generazione. A questo
diritto, si può liberamente rinunciare, pur rimanendo sposati. E’ quanto
facevano i primi cristiani i quali, pur rimanendo giuridicamente
sposati, decidevano di non usare del matrimonio, cioè di vivere da
celibi all’interno dello stato matrimoniale. La parola celibe, in questo
senso, non indica uno status, ma la scelta di astenersi per sempre dai
piaceri sessuali. Nei primi secoli fu riconosciuto al clero la
possibilità di vivere nello stato matrimoniale, ma non il diritto di
usare del matrimonio. Ciò che fu dall’inizio obbligatorio, non fu lo
stato di celibe, ma la continenza, ovvero l’astensione dall’atto
generativo.
Nei primi
secoli della Chiesa, l’accesso agli ordini sacri era aperto agli
sposati, a condizione che essi, col consenso della moglie, rinunciassero
all’uso del matrimonio e praticassero una vita di continenza. La
prescrizione apostolica della continenza ebbe il suo logico sviluppo
nelle leggi che imposero progressivamente ai sacerdoti lo stato
celibatario. La lunga serie degli interventi papali ebbe il suo
coronamento nel Concilio Lateranense I, convocato da Callisto II (1123),
nel quale fu promulgata la legge non solo della proibizione, ma della
invalidità del matrimonio per chi aveva ricevuto gli ordini sacri. Nel
primo millennio, le chiese orientali non conobbero questo sviluppo
dogmatico-disciplinare e rimasero come eccezione alla regola latina. In
seguito, nelle chiese orientali scismatiche, l’antica disciplina
celibataria si allargò sempre di più, mentre la maggior parte delle
Chiese orientali rimaste unite o ritornate all’unione con Roma, ha
finito per accettare la disciplina dell’Occidente, anche se per alcuni
cattolici, come i Maroniti e gli Armeni, Roma tollera che seguano
l’antico costume greco: il fatto stesso però che, in Oriente, i
sacerdoti non possono sposarsi dopo l’ordinazione e soltanto i sacerdoti
celibi sono ordinati vescovi, significa che l’uso del matrimonio per
chi lo avesse contratto precedentemente alla ordinazione, è una pratica
tollerata, ma non certo posta a modello.
Del resto,
gli attacchi al celibato accompagnano da sempre la storia della Chiesa
Nel 1941, ad esempio, fu messo all’Indice un libro curato dal teologo
protestante Hermann Mulert, Der Katholizismus der Zukunft (Lipsia 1940),
in cui si reclamava, come chiede Gennari, la possibilità di inserire il
celibato ecclesiastico come facoltativo. Ma non c’è da illudersi su
questo punto: se cade la legge del celibato, cade con essa il sacerdozio
celibatario e si apre la strada all’istituzionalizzazione del
matrimonio ecclesiastico. Né serve ripetere che la castità è
impossibile, visto che il Concilio di Trento ha condannato chi lo
afferma (sess. XXIX, can- 9).
E’ vero
però che ad una vita di perfetta continenza l’uomo non può giungere con
le sole sue forze, ragione per cui Dio non l’ha comandato, ma solo
consigliato. Chi liberamente sceglie di seguire questo consiglio
evangelico, trova non in sé stesso, ma in Dio, la forza per essere
coerente con la propria scelta. Il celibato resta, certo, un sacrificio e
questo, ha osservato il padre Cornelio Fabro, “sta o cade con il
carattere della Chiesa cattolica come l’unica vera Chiesa di Gesù
Cristo”. Il prete cattolico, infatti, può e vuole sacrificarsi soltanto
per una causa assoluta. Ma oggi l’unicità della Chiesa romana come vera
Chiesa è messa in discussione e il concetto di sacrificio è abbandonato,
in nome della ricerca del piacere ad ogni costo. La vocazione
sacerdotale esige inoltre la donazione totale e l’esclusivo orientamento
di ogni preoccupazione a Dio e alle anime, il che è incompatibile con
la divisione del cuore che è propria a chi è preso dalle cure familiari.
Giovanni
Paolo II, nell’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis, ha affermato
che la volontà della Chiesa trova la sua ultima motivazione “nel legame
che il celibato ha con l’ordinazione sacra, che configura il sacerdote a
Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa” (n. 29). Sviluppando il
Magistero pontificio, nei suoi articoli sull’“Osservatore Romano” e nel
suo recente volume Il sigillo. Cristo fonte dell’identita del prete
(Cantagalli Siena 2010), il cardinale Piacenza ribadisce che la radice
teologica del celibato è da rintracciare nella nuova identità che viene
donata a colui che è insignito del Sacramento dell’Ordine. Il problema
di fondo è dunque quel ruolo del sacerdote nella società postmoderna che
il nuovo Prefetto della Congregazione per il Clero rilancia con forza.
La richiesta dell’abolizione del celibato si inserisce in un contesto di
secolarizzazione considerato irreversibile, malgrado le lezioni in
senso contrario della storia.
Secolarizzazione
significa perdita del concetto di sacro e di sacrificio e assunzione
della “mondanità” come valore, Ma la modernizzazione della Chiesa ha
portato oggi alla sua “sessualizzazione”. La purezza però è una virtù
che spinge chi la pratica verso il cielo, mentre la sessualità inchioda
le tendenze umane alla terra. Molti sacerdoti reclamano il piacere come
un diritto e, se non lo ottengono ufficialmente, lo esercitano nella
semi-clandestinità, talvolta sotto gli occhi benevolmente complici dei
loro vescovi. Il cammino è esattamente contrario a quello percorso dai
primi cristiani. Allora accadeva che gli uomini sposati scegliessero di
abbracciare, con il sacerdozio, una vita di assoluta castità. Oggi
succede che sacerdoti che hanno consacrato la loro vita al Signore
reclamino di poter godere dei piaceri del mondo. Ciò non è nuovo nella
Chiesa, che ha vissuto come una piaga il concubinato dei preti, cioè il
fatto che essi vivessero abitualmente more uxorio, come accadeva quando
san Pier Damiani scrisse l’infuocato Liber Ghomorranus.
La via da
seguire, ancora oggi, è quella, indicata da Benedetto XVI, di una
profonda riforma morale, analoga alla rinascita gregoriana dell’XI
secolo. E se si volessero riassumere le ragioni in difesa del celibato
dei preti, diremmo in primo luogo che non si tratta di una legge
ecclesiastica, ma della volontà stessa di Cristo, trasmessa attraverso
gli apostoli alla Chiesa; in secondo luogo che il mondo ha bisogno di
sacerdoti i quali non assecondino la loro pur sofferta umanità, ma la
vincano, rispecchiando Cristo e ponendosi come modello e guida alle
anime, oggi più che mai assetate di assoluto.