Fonte : Osservatore Romano
Fedeltà e perseveranza vocazionale in una cultura del provvisorio» è il tema della giornata di studio svoltasi martedì 29 ottobre all’Antonianum di Roma. All’incontro hanno partecipato il cardinale João Braz de Aviz, prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, e l’arcivescovo segretario del dicastero, che ha svolto un intervento su «La fragilità vocazionale: quale responsabilità per le istituzioni di vita consacrata?» del quale pubblichiamo la parte iniziale, dedicata all’analisi delle cause del fenomeno degli abbandoni della vita religiosa, e le conclusioni.
Da tempo si parla di “crisi” nella e della vita religiosa e consacrata. E per giustificare questa diagnosi frequentemente si ricorre al numero degli abbandoni, che acutizza la già di per sé allarmante diminuzione di vocazioni che colpisce un gran numero di istituti e che, se continua così, mette in serio pericolo la sopravvivenza di alcuni di questi.
Non entro qui nel dibattito se la “crisi” della quale si parla sia positiva o no. È certo, tuttavia, che, tenendo conto del numero degli abbandoni e che la maggioranza di essi accade in età relativamente giovani, detto fenomeno è preoccupante. D’altra parte, considerando il fatto che la emorragia continua e non accenna a fermarsi, gli abbandoni sono certamente sintomo di una crisi più ampia nella vita religiosa e consacrata, e la mettono in questione, per lo meno nella forma concreta in cui è vissuta.
Per tutto questo, anche se è certo che non possiamo lasciarci ossessionare dal tema — ogni ossessione è negativa — è anche certo che davanti al problema non possiamo “guardare da un’altra parte” o “nascondere il capo sotto l’ala”. D’altra parte, sebbene è certo, anche, che sono molti i fattori socioculturali che influiscono sul fenomeno degli abbandoni, è pur certo che non sono l’unica causa e che non possiamo riferirci soltanto ad essi per tranquillizzarci e per spiegare questo fenomeno, fino a vedere come “normale” ciò che non lo è.
Non è facile conoscere con precisione il numero di quanti abbandonano ogni anno la vita religiosa e consacrata, anche perché ci sono pratiche che vanno alla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, altre che vengono inoltrate alla Congregazione del Clero ed altre che finiscono nella Congregazione della Dottrina della Fede. In ogni caso le cifre di cui disponiamo sono consistenti, come si può vedere dai dati che ci vengono offerti dalle prime due Congregazioni.
Il nostro dicastero in 5 anni (2008–2012) ha dato 11.805 dispense: indulti per lasciare l’istituto, decreti di dimissioni, secolarizzazioni ad experimentum e secolarizzazioni per incardinarsi in una diocesi. Si tratta di una media annuale di 2.361 dispense.
La Congregazione per il Clero, negli stessi anni, ha dato 1.188 dispense dagli obblighi sacerdotali e 130 dispense dagli obblighi del diaconato. Sono tutti religiosi: ciò fa una media per anno di 367,6. Sommando questi dati con gli altri, abbiamo quanto segue: hanno lasciato la vita religiosa 13.123 religiosi o religiose, in 5 anni, con una media annuale di 2.624,6. Ciò vuol dire 2,54 ogni 1000 religiosi. A questi bisogna aggiungere tutti i casi trattati dalla Congregazione per la Dottrina della Fede.
Secondo un calcolo approssimativo ma abbastanza sicuro, questo vuol dire che più di 3.000 religiosi o religiose hanno lasciato ogni anno la vita consacrata. Nel computo non sono stati inseriti i membri delle società di vita apostolica che hanno abbandonato la loro consacrazione, ne quelli di voti temporali.
Certamente i numeri non sono tutto, ma sarebbe da ingenui non tenerne conto.
Prima di indicare alcune delle cause degli abbandoni, credo che sia opportuno dire che è quasi impossibile rilevare con esattezza tali cause. Il motivo? È molto semplice: non abbiamo dati totalmente affidabili. A volte, una cosa è quello che si scrive, tutt’altra cosa è quello che si vive. Inoltre, in molti casi quello che dicono i documenti, di cui si dispone al termine di una procedura, non necessariamente coincide con la vera causa degli abbandoni. Tuttavia, dalla documentazione che possiede il nostro dicastero, si possono individuare le seguenti cause.
Assenza della vita spirituale — preghiera personale, preghiera comunitaria, vita sacramentale — che conduce, molte volte, a puntare esclusivamente sulle attività di apostolato, per poter così andare avanti o per trovare dei sotterfugi. Molto spesso questa mancanza di vita spirituale sfocia in una profonda crisi di fede, per molti la vera e più profonda crisi della vita religiosa e consacrata e della stessa vita della Chiesa. Questo fa sì che i voti non abbiano più senso — in genere prima dell’abbandono vi sono gravi e continue colpe contro di essi — e neppure la stessa vita consacrata. In questi casi, ovviamente, l’abbandono è l’uscita “normale” e più logica.
Perdita del senso di appartenenza alla comunità, all’istituto e, in alcuni casi alla stessa Chiesa. All’origine di molti abbandoni c’è una disaffezione alla vita comunitaria che si manifesta: nella critica sistematica ai membri della propria comunità o dell’istituto, particolarmente all’autorità, che produce una grande insoddisfazione; nella scarsa partecipazione ai momenti comunitari o alle iniziative della comunità, a causa di una mancanza di equilibrio tra le esigenze della vita comunitaria e le esigenze dell’individuo e dell’apostolato che si svolge; nel ricercare fuori quello che non si trova in casa...
I problemi più comuni nella vita fraterna in comunità, secondo la documentazione a nostra disposizione, sono: problemi di relazione interpersonale, incomprensioni, mancanza di dialogo e di autentica comunicazione, incapacità psichica a vivere le esigenze della vita fraterna in comunità, incapacità di risolvere i conflitti...
Per quanto riguarda la perdita di senso di appartenenza alla Chiesa, a volte è data dalla mancanza di vera comunione con essa e si manifesta, tra l’altro, nel non condividere l’insegnamento della Chiesa su temi specifici come il sacerdozio alle donne e la morale sessuale.
Tutto questo finisce con la perdita del senso di appartenenza all’istituzione, si chiami comunità locale, istituto religioso o Chiesa, che viene considerata solo in quanto può servire per soddisfare i propri interessi: per esempio, la casa religiosa, molte volte, viene considerata come “hotel” o una semplice “residenza”. La mancanza di senso di appartenenza porta, spesso, anche ad abbandonare fisicamente la comunità, senza nessun permesso.
Sempre mi ha colpito vedere religiosi che abbandonano la vita religiosa o consacrata con tutta naturalezza, anche dopo tanti anni, senza che questo supponga nessun dramma. È chiaro che non lasciano niente, perché il loro cuore era da un'altra parte.
Problemi affettivi. Qui la problematica è molto ampia: va dall’innamoramento, che si conclude con il matrimonio, alla violazione del voto di castità, sia con ripetuti atti di omosessualità — più palese negli uomini, ma ugualmente presente, più di quanto si pensi, tra le donne — sia con relazioni eterosessuali, più o meno frequenti. Altre volte i problemi affettivi hanno una chiara ripercussione nella vita fraterna in comunità, poiché riguardano il mondo delle relazioni, provocando continui conflitti che finiscono per rendere invivibile la comunità. Infine, i problemi affettivi possono essere tali che si giunge alla convinzione di non poter vivere la castità e si decide, anche per motivi di coerenza, di abbandonare la vita consacrata.
Quando si cerca di individuare le cause o di proporre degli orientamenti, penso che sia necessario fare una radiografia, pur breve e limitata, della società da cui provengono i nostri giovani, i giovani che si rivolgono a noi, così come delle fraternità che li accolgono.
La prima cosa evidente a tutti è che siamo in un mondo in profonda trasformazione. Si tratta di un cambiamento che porta con sé il passaggio dalla modernità alla post-modernità. Viviamo in un tempo caratterizzato da cambiamenti culturali imprevedibili: nuove culture e sotto-culture, nuovi simboli, nuovi stili di vita e nuovi valori. Il tutto avviene a una velocità vertiginosa.
Le certezze e gli schemi interpretativi globali e totalizzanti che caratterizzavano l’era moderna hanno lasciato il posto alla complessità, alla pluralità, alla contrapposizione di modelli di vita e a comportamenti etici che si sono invischiati tra loro in modo disordinato e contraddittorio: sono tutte caratteristiche dell’era post-moderna.
Mentre nella modernità esisteva la plausibilità di un progetto globale, di un’idea matrice, di un “nord” come faro di comportamento, il momento attuale è caratterizzato dall’incertezza, dal dubbio, dal ripiegamento nel quotidiano e nell’emozionale. Così, diventa difficile capire ciò che è essenziale da ciò che secondario e accidentale.
Ciò produce in molti: disorientamento di fronte ad una realtà che si presenta talmente complessa da non potersi percepire; incertezza a causa della mancanza di certezze su cui ancorare la propria vita; insicurezza per la mancanza di riferimenti sicuri. Il tutto si unisce ad una grande delusione di fronte alle domande essenziali, considerate inutili, poiché tutto è possibile e ciò che oggi c’è, domani cessa di essere.
Il nostro tempo è anche un tempo di mercato. Tutto è misurato e valutato secondo l’utilità e la redditività, anche le persone. Queste, in termini di mercato, valgono quanto producono e valgono in quanto sono utili. Il loro valore oscilla, pertanto, in base alla domanda. Tale concezione mercantilista della persona arriva a privilegiare il fare, l’utilità, e persino l’apparenza sull’essere.
Viviamo, anche, in un tempo che possiamo definire il tempo dello zapping. Zapping, letteralmente, vuole dire: passare da un canale all’altro, servendosi del telecomando, senza fermarsi su nessuno. Simbolicamente, zapping, significa non assumere impegni a lungo termine, passare da un esperimento all’altro, senza fare nessuna esperienza che segna la vita. In un mondo dove tutto è agevolato, non c’è posto per il sacrificio, né per la rinuncia, né per altri valori simili. Invece, questi sono presenti nella scelta vocazionale che esige, pertanto, di andare controcorrente, come è la vocazione alla vita consacrata.
Infine, bisogna segnalare anche che nel mondo in cui viviamo, e in stretta connessione con ciò che abbiamo chiamato “mentalità di mercato”, c’è il dominio del neo-individualismo e la cultura del soggettivismo. L’individuo è la misura di tutto e tutto è visto, misurato e valutato in funzione di se stesso e dell’autorealizzazione. In un mondo siffatto, in cui ciascuno si sente unico per eccellenza, frequentemente non esiste una comunicazione profonda. L’uomo odierno parla molto, apparentemente è un grande comunicatore, ma in realtà non riesce a comunicare in profondità e, di conseguenza, non riesce a incontrare l’altro.
A conclusione della nostra riflessione ci poniamo la domanda: in una società come la nostra, è possibile rimanere fedele a una opzione di vita che in partenza è chiamata ad essere definitiva e irrevocabile?
La risposta mi sembra semplice se teniamo conto di tanti consacrati che vivono gioiosamente la fedeltà agli impegni assunti nella loro professione. A ogni modo, per prevenire gli abbandoni, senza illuderci di evitarli totalmente, credo necessario quanto segue.
Che la vita consacrata e religiosa ponga al centro una rinnovata esperienza del Dio uno e trino e consideri questa esperienza come la sua struttura fondamentale. L’essenziale della vita consacrata e religiosa è quaerere Deum, cercare Dio, vivere in Dio.
Che l’opzione per il Dio vivente (cf. Giovanni 20, 17) non si viva nel chiudersi in un misticismo separato da tutto e da tutti, ma che porti i consacrati a partecipare al dinamismo trinitario ad intra e ad extra. La partecipazione nel dinamismo trinitario ad intra suppone relazione di comunione con gli altri e porta con sé il dono di se stessi agli altri. D’altra parte, vivere il dinamismo trinitario ad extra comporta vivere criticamente e profeticamente in seno alla società.
Che ci sia una decisione chiara di anteporre la qualità evangelica di vita al numero di membri o al mantenimento delle opere.
Che nella cura pastorale delle vocazioni si presenti la vita consacrata e religiosa in tutta la sua radicalità evangelica e si faccia un discernimento in consonanza con dette esigenze.
Che durante la formazione iniziale si assicuri un accompagnamento personalizzato e non si facciano “saldi” nelle esigenze di una vita consacrata che sia evangelicamente significativa.
Che tra la pastorale vocazionale, formazione iniziale e permanente ci sia continuità e coerenza.
Che durante i primi anni di professione solenne si assicuri un adeguato accompagnamento personalizzato.
Un bel proverbio orientale dice: “L’occhio vede soltanto la sabbia, ma il cuore illuminato può intravedere la fine del deserto e la terra fertile”. Guardiamo con il cuore. Forse potremmo vedere quello che altri non vedono.
Fedeltà e perseveranza vocazionale in una cultura del provvisorio» è il tema della giornata di studio svoltasi martedì 29 ottobre all’Antonianum di Roma. All’incontro hanno partecipato il cardinale João Braz de Aviz, prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, e l’arcivescovo segretario del dicastero, che ha svolto un intervento su «La fragilità vocazionale: quale responsabilità per le istituzioni di vita consacrata?» del quale pubblichiamo la parte iniziale, dedicata all’analisi delle cause del fenomeno degli abbandoni della vita religiosa, e le conclusioni.
Da tempo si parla di “crisi” nella e della vita religiosa e consacrata. E per giustificare questa diagnosi frequentemente si ricorre al numero degli abbandoni, che acutizza la già di per sé allarmante diminuzione di vocazioni che colpisce un gran numero di istituti e che, se continua così, mette in serio pericolo la sopravvivenza di alcuni di questi.
Non entro qui nel dibattito se la “crisi” della quale si parla sia positiva o no. È certo, tuttavia, che, tenendo conto del numero degli abbandoni e che la maggioranza di essi accade in età relativamente giovani, detto fenomeno è preoccupante. D’altra parte, considerando il fatto che la emorragia continua e non accenna a fermarsi, gli abbandoni sono certamente sintomo di una crisi più ampia nella vita religiosa e consacrata, e la mettono in questione, per lo meno nella forma concreta in cui è vissuta.
Per tutto questo, anche se è certo che non possiamo lasciarci ossessionare dal tema — ogni ossessione è negativa — è anche certo che davanti al problema non possiamo “guardare da un’altra parte” o “nascondere il capo sotto l’ala”. D’altra parte, sebbene è certo, anche, che sono molti i fattori socioculturali che influiscono sul fenomeno degli abbandoni, è pur certo che non sono l’unica causa e che non possiamo riferirci soltanto ad essi per tranquillizzarci e per spiegare questo fenomeno, fino a vedere come “normale” ciò che non lo è.
Non è facile conoscere con precisione il numero di quanti abbandonano ogni anno la vita religiosa e consacrata, anche perché ci sono pratiche che vanno alla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, altre che vengono inoltrate alla Congregazione del Clero ed altre che finiscono nella Congregazione della Dottrina della Fede. In ogni caso le cifre di cui disponiamo sono consistenti, come si può vedere dai dati che ci vengono offerti dalle prime due Congregazioni.
Il nostro dicastero in 5 anni (2008–2012) ha dato 11.805 dispense: indulti per lasciare l’istituto, decreti di dimissioni, secolarizzazioni ad experimentum e secolarizzazioni per incardinarsi in una diocesi. Si tratta di una media annuale di 2.361 dispense.
La Congregazione per il Clero, negli stessi anni, ha dato 1.188 dispense dagli obblighi sacerdotali e 130 dispense dagli obblighi del diaconato. Sono tutti religiosi: ciò fa una media per anno di 367,6. Sommando questi dati con gli altri, abbiamo quanto segue: hanno lasciato la vita religiosa 13.123 religiosi o religiose, in 5 anni, con una media annuale di 2.624,6. Ciò vuol dire 2,54 ogni 1000 religiosi. A questi bisogna aggiungere tutti i casi trattati dalla Congregazione per la Dottrina della Fede.
Secondo un calcolo approssimativo ma abbastanza sicuro, questo vuol dire che più di 3.000 religiosi o religiose hanno lasciato ogni anno la vita consacrata. Nel computo non sono stati inseriti i membri delle società di vita apostolica che hanno abbandonato la loro consacrazione, ne quelli di voti temporali.
Certamente i numeri non sono tutto, ma sarebbe da ingenui non tenerne conto.
Prima di indicare alcune delle cause degli abbandoni, credo che sia opportuno dire che è quasi impossibile rilevare con esattezza tali cause. Il motivo? È molto semplice: non abbiamo dati totalmente affidabili. A volte, una cosa è quello che si scrive, tutt’altra cosa è quello che si vive. Inoltre, in molti casi quello che dicono i documenti, di cui si dispone al termine di una procedura, non necessariamente coincide con la vera causa degli abbandoni. Tuttavia, dalla documentazione che possiede il nostro dicastero, si possono individuare le seguenti cause.
Assenza della vita spirituale — preghiera personale, preghiera comunitaria, vita sacramentale — che conduce, molte volte, a puntare esclusivamente sulle attività di apostolato, per poter così andare avanti o per trovare dei sotterfugi. Molto spesso questa mancanza di vita spirituale sfocia in una profonda crisi di fede, per molti la vera e più profonda crisi della vita religiosa e consacrata e della stessa vita della Chiesa. Questo fa sì che i voti non abbiano più senso — in genere prima dell’abbandono vi sono gravi e continue colpe contro di essi — e neppure la stessa vita consacrata. In questi casi, ovviamente, l’abbandono è l’uscita “normale” e più logica.
Perdita del senso di appartenenza alla comunità, all’istituto e, in alcuni casi alla stessa Chiesa. All’origine di molti abbandoni c’è una disaffezione alla vita comunitaria che si manifesta: nella critica sistematica ai membri della propria comunità o dell’istituto, particolarmente all’autorità, che produce una grande insoddisfazione; nella scarsa partecipazione ai momenti comunitari o alle iniziative della comunità, a causa di una mancanza di equilibrio tra le esigenze della vita comunitaria e le esigenze dell’individuo e dell’apostolato che si svolge; nel ricercare fuori quello che non si trova in casa...
I problemi più comuni nella vita fraterna in comunità, secondo la documentazione a nostra disposizione, sono: problemi di relazione interpersonale, incomprensioni, mancanza di dialogo e di autentica comunicazione, incapacità psichica a vivere le esigenze della vita fraterna in comunità, incapacità di risolvere i conflitti...
Per quanto riguarda la perdita di senso di appartenenza alla Chiesa, a volte è data dalla mancanza di vera comunione con essa e si manifesta, tra l’altro, nel non condividere l’insegnamento della Chiesa su temi specifici come il sacerdozio alle donne e la morale sessuale.
Tutto questo finisce con la perdita del senso di appartenenza all’istituzione, si chiami comunità locale, istituto religioso o Chiesa, che viene considerata solo in quanto può servire per soddisfare i propri interessi: per esempio, la casa religiosa, molte volte, viene considerata come “hotel” o una semplice “residenza”. La mancanza di senso di appartenenza porta, spesso, anche ad abbandonare fisicamente la comunità, senza nessun permesso.
Sempre mi ha colpito vedere religiosi che abbandonano la vita religiosa o consacrata con tutta naturalezza, anche dopo tanti anni, senza che questo supponga nessun dramma. È chiaro che non lasciano niente, perché il loro cuore era da un'altra parte.
Problemi affettivi. Qui la problematica è molto ampia: va dall’innamoramento, che si conclude con il matrimonio, alla violazione del voto di castità, sia con ripetuti atti di omosessualità — più palese negli uomini, ma ugualmente presente, più di quanto si pensi, tra le donne — sia con relazioni eterosessuali, più o meno frequenti. Altre volte i problemi affettivi hanno una chiara ripercussione nella vita fraterna in comunità, poiché riguardano il mondo delle relazioni, provocando continui conflitti che finiscono per rendere invivibile la comunità. Infine, i problemi affettivi possono essere tali che si giunge alla convinzione di non poter vivere la castità e si decide, anche per motivi di coerenza, di abbandonare la vita consacrata.
Quando si cerca di individuare le cause o di proporre degli orientamenti, penso che sia necessario fare una radiografia, pur breve e limitata, della società da cui provengono i nostri giovani, i giovani che si rivolgono a noi, così come delle fraternità che li accolgono.
La prima cosa evidente a tutti è che siamo in un mondo in profonda trasformazione. Si tratta di un cambiamento che porta con sé il passaggio dalla modernità alla post-modernità. Viviamo in un tempo caratterizzato da cambiamenti culturali imprevedibili: nuove culture e sotto-culture, nuovi simboli, nuovi stili di vita e nuovi valori. Il tutto avviene a una velocità vertiginosa.
Le certezze e gli schemi interpretativi globali e totalizzanti che caratterizzavano l’era moderna hanno lasciato il posto alla complessità, alla pluralità, alla contrapposizione di modelli di vita e a comportamenti etici che si sono invischiati tra loro in modo disordinato e contraddittorio: sono tutte caratteristiche dell’era post-moderna.
Mentre nella modernità esisteva la plausibilità di un progetto globale, di un’idea matrice, di un “nord” come faro di comportamento, il momento attuale è caratterizzato dall’incertezza, dal dubbio, dal ripiegamento nel quotidiano e nell’emozionale. Così, diventa difficile capire ciò che è essenziale da ciò che secondario e accidentale.
Ciò produce in molti: disorientamento di fronte ad una realtà che si presenta talmente complessa da non potersi percepire; incertezza a causa della mancanza di certezze su cui ancorare la propria vita; insicurezza per la mancanza di riferimenti sicuri. Il tutto si unisce ad una grande delusione di fronte alle domande essenziali, considerate inutili, poiché tutto è possibile e ciò che oggi c’è, domani cessa di essere.
Il nostro tempo è anche un tempo di mercato. Tutto è misurato e valutato secondo l’utilità e la redditività, anche le persone. Queste, in termini di mercato, valgono quanto producono e valgono in quanto sono utili. Il loro valore oscilla, pertanto, in base alla domanda. Tale concezione mercantilista della persona arriva a privilegiare il fare, l’utilità, e persino l’apparenza sull’essere.
Viviamo, anche, in un tempo che possiamo definire il tempo dello zapping. Zapping, letteralmente, vuole dire: passare da un canale all’altro, servendosi del telecomando, senza fermarsi su nessuno. Simbolicamente, zapping, significa non assumere impegni a lungo termine, passare da un esperimento all’altro, senza fare nessuna esperienza che segna la vita. In un mondo dove tutto è agevolato, non c’è posto per il sacrificio, né per la rinuncia, né per altri valori simili. Invece, questi sono presenti nella scelta vocazionale che esige, pertanto, di andare controcorrente, come è la vocazione alla vita consacrata.
Infine, bisogna segnalare anche che nel mondo in cui viviamo, e in stretta connessione con ciò che abbiamo chiamato “mentalità di mercato”, c’è il dominio del neo-individualismo e la cultura del soggettivismo. L’individuo è la misura di tutto e tutto è visto, misurato e valutato in funzione di se stesso e dell’autorealizzazione. In un mondo siffatto, in cui ciascuno si sente unico per eccellenza, frequentemente non esiste una comunicazione profonda. L’uomo odierno parla molto, apparentemente è un grande comunicatore, ma in realtà non riesce a comunicare in profondità e, di conseguenza, non riesce a incontrare l’altro.
A conclusione della nostra riflessione ci poniamo la domanda: in una società come la nostra, è possibile rimanere fedele a una opzione di vita che in partenza è chiamata ad essere definitiva e irrevocabile?
La risposta mi sembra semplice se teniamo conto di tanti consacrati che vivono gioiosamente la fedeltà agli impegni assunti nella loro professione. A ogni modo, per prevenire gli abbandoni, senza illuderci di evitarli totalmente, credo necessario quanto segue.
Che la vita consacrata e religiosa ponga al centro una rinnovata esperienza del Dio uno e trino e consideri questa esperienza come la sua struttura fondamentale. L’essenziale della vita consacrata e religiosa è quaerere Deum, cercare Dio, vivere in Dio.
Che l’opzione per il Dio vivente (cf. Giovanni 20, 17) non si viva nel chiudersi in un misticismo separato da tutto e da tutti, ma che porti i consacrati a partecipare al dinamismo trinitario ad intra e ad extra. La partecipazione nel dinamismo trinitario ad intra suppone relazione di comunione con gli altri e porta con sé il dono di se stessi agli altri. D’altra parte, vivere il dinamismo trinitario ad extra comporta vivere criticamente e profeticamente in seno alla società.
Che ci sia una decisione chiara di anteporre la qualità evangelica di vita al numero di membri o al mantenimento delle opere.
Che nella cura pastorale delle vocazioni si presenti la vita consacrata e religiosa in tutta la sua radicalità evangelica e si faccia un discernimento in consonanza con dette esigenze.
Che durante la formazione iniziale si assicuri un accompagnamento personalizzato e non si facciano “saldi” nelle esigenze di una vita consacrata che sia evangelicamente significativa.
Che tra la pastorale vocazionale, formazione iniziale e permanente ci sia continuità e coerenza.
Che durante i primi anni di professione solenne si assicuri un adeguato accompagnamento personalizzato.
Un bel proverbio orientale dice: “L’occhio vede soltanto la sabbia, ma il cuore illuminato può intravedere la fine del deserto e la terra fertile”. Guardiamo con il cuore. Forse potremmo vedere quello che altri non vedono.
José Rodríguez Carballo