Significato del celibato
8. Permettete che qui tocchi il problema del celibato sacerdotale. Lo
tratterò sinteticamente, perché è stato già preso in
considerazione in modo profondo e completo durante il Concilio e, in seguito,
nell'Enciclica «Sacerdotalis Caelibatus», e ancora durante la sessione
ordinaria del Sinodo dei Vescovi del 1971. Tale riflessione si è
dimostrata necessaria sia per presentare il problema in modo ancor più
maturo, sia per motivare ancor più profondamente il senso della
decisione, che la Chiesa Latina ha assunto da tanti secoli e alla quale ha
cercato di essere fedele, desiderando mantenere anche nel futuro questa fedeltà.
L'importanza del problema in questione è così grave e il suo
legame col linguaggio dello stesso Vangelo così stretto, che non possiamo
in questo caso pensare con categorie diverse da quelle di cui si sono serviti il
Concilio, il Sinodo dei Vescovi e lo stesso grande Papa Paolo VI. Possiamo
soltanto cercare di comprendere questo problema più profondamente e di
rispondervi in modo più maturo, liberandoci sia dalle varie obiezioni,
che sempre - come avviene anche oggi - sono state sollevate contro il celibato
sacerdotale, sia dalle diverse interpretazioni che si riferiscono a criteri
estranei al Vangelo, alla Tradizione e al Magistero della Chiesa; criteri,
aggiungiamo, la cui esattezza e fondatezza «antropologica» si rivelano
molto dubbie e di valore relativo.
Non dobbiamo, del resto, meravigliarci troppo di tutte queste obiezioni e
critiche che, nel periodo postconciliare, si sono intensificate e che qua e là
sembra si vadano oggi attenuando. Gesù Cristo, dopo aver presentato ai
discepoli la questione della rinuncia al matrimonio «per il regno dei cieli»,
non ha forse aggiunto quelle parole significative: «Chi può
intendere, intenda» (Mt 19,12)? La Chiesa Latina ha voluto e continua a
volere, riferendosi all'esempio dello stesso Cristo Signore, all'insegnamento
apostolico e a tutta la tradizione che le è propria, che tutti coloro i
quali ricevono il sacramento dell'Ordine abbraccino questa rinuncia per il regno
dei cieli. Questa tradizione, però, è unita al rispetto verso
tradizioni differenti di altre Chiese. Difatti, essa costituisce una
caratteristica, una peculiarità e una eredità della Chiesa
cattolica Latina, alla quale questa deve molto e nella quale è decisa a
perseverare, nonostante tutte le difficoltà, a cui una tale fedeltà
potrebbe essere esposta, e malgrado anche i vari sintomi di debolezza e di crisi
di singoli Sacerdoti. Tutti siamo coscienti che «abbiamo questo tesoro in
vasi di creta» (cfr. 2Cor 4,7); tuttavia, sappiamo bene che esso è
appunto un tesoro.
Perché un tesoro? Vogliamo forse con ciò sminuire il valore
del matrimonio e la vocazione alla vita familiare? Oppure soccombiamo al
disprezzo manicheo per il corpo umano e per le sue funzioni? Vogliamo forse in
qualche modo deprezzare l'amore, che conduce l'uomo e la donna al matrimonio e
alla coniugale unità del corpo, per formare così «una carne
sola» (Gen 2,24; Mt 19,6)? Come potremmo pensare e ragionare in tale modo,
se sappiamo, crediamo e proclamiamo, seguendo san Paolo, che il matrimonio è
un «mistero grande» in riferimento a Cristo e alla Chiesa? (cfr. Ef
5,32). Nessuno, però, dei motivi con cui alle volte si cerca di «convincerci»
circa l'inopportunità del celibato corrisponde alla verità, che la
Chiesa proclama e che cerca di realizzare nella vita mediante l'impegno, a cui
si obbligano i Sacerdoti prima della sacra Ordinazione. Il motivo, invece,
essenziale, proprio e adeguato è racchiuso nella verità che Cristo
ha dichiarato, parlando della rinuncia al matrimonio per il regno dei cieli, e
che san Paolo proclamava, scrivendo che ognuno nella Chiesa ha il suo proprio
dono (cfr. 1Cor 7,7). Il celibato è appunto «dono dello Spirito».
Un simile, benché diverso, dono è contenuto nella vocazione al
vero e fedele amore coniugale, diretto alla procreazione secondo la carne, nel
contesto così grande del sacramento del matrimonio. E' noto come questo
dono sia fondamentale per costruire la grande comunità della Chiesa,
Popolo di Dio. Se però questa comunità vorrà rispondere
pienamente alla sua vocazione in Gesù Cristo, sarà necessario che
in essa si realizzi, in proporzione adeguata, anche quell'altro «dono»,
il dono del celibato «per il regno dei cieli» (Mt 19,12).
Per quale ragione la Chiesa cattolica Latina collega questo dono non
soltanto alla vita delle persone che accettano lo stretto programma dei consigli
evangelici negli Istituti Religiosi, ma anche alla vocazione al sacerdozio
insieme gerarchico e ministeriale? Lo fa perché il celibato «per il
regno» non è soltanto un segno escatologico, ma ha anche un grande
significato sociale, nella vita presente, per il servizio al Popolo di Dio. Il
Sacerdote, attraverso il suo celibato, diventa l'«uomo per gli altri»,
in modo diverso da come lo diventa uno che, legandosi in unità coniugale
con la donna, diventa anch'egli, come sposo e padre, «uomo per gli altri»
soprattutto nel raggio della propria famiglia: per la sua sposa, e insieme con
essa per i figli, ai quali dà la vita. Il Sacerdote, rinunciando a questa
paternità ch'è propria degli sposi, cerca un'altra paternità
e quasi addirittura un'altra maternità, ricordando le parole
dell'Apostolo circa i figli, che egli genera nel dolore (cfr. 1Cor 4,15; Gal
4,19). Sono essi figli del suo spirito, uomini affidati dal buon Pastore alla
sua sollecitudine. Questi uomini sono molti, più numerosi di quanti ne
possa abbracciare una semplice famiglia umana. La vocazione pastorale dei
Sacerdoti è grande e il Concilio insegna che è universale: essa è
diretta verso tutta la Chiesa (cfr. «Presbyterorum Ordinis», 3, 6, 10,
12) e, quindi, è anche missionaria. Normalmente, essa è legata al
servizio di una determinata comunità del Popolo di Dio, in cui ognuno si
aspetta attenzione, premura, amore. Il cuore del Sacerdote, per essere
disponibile a tale servizio, a tale sollecitudine e amore, deve essere libero.
Il celibato è segno di una libertà, che è per il servizio.
In virtù di questo segno il sacerdozio gerarchico, ossia «ministeriale»,
è - secondo la tradizione della nostra Chiesa - più strettamente «ordinato»
al sacerdozio comune dei fedeli.
Prova e responsabilità
9. Frutto di equivoco - se non proprio di malafede - è l'opinione
spesso diffusa, secondo cui il celibato sacerdotale nella Chiesa cattolica
sarebbe semplicemente un'istituzione imposta per legge a coloro che ricevono il
sacramento dell'Ordine.
Tutti sappiamo che non è così. Ogni cristiano che riceve il
sacramento dell'Ordine s'impegna al celibato con piena coscienza e libertà,
dopo una preparazione pluriennale, una profonda riflessione e una assidua
preghiera. Egli prende la decisione per la vita nel celibato solo dopo esser
giunto alla ferma convinzione che Cristo gli concede questo «dono» per
il bene della Chiesa e per il servizio degli altri. Solo allora s'impegna ad
osservarlo per tutta la vita. E' ovvio che una tale decisione obbliga non
soltanto in virtù della legge stabilita dalla Chiesa, ma anche in virtù
della responsabilità personale. Si tratta qui di mantenere la parola data
a Cristo e alla Chiesa. Il mantenimento della parola è, insieme, dovere e
verifica della maturità interiore del sacerdote, è l'espressione
della sua dignità personale. Ciò si manifesta in tutta la sua
chiarezza, quando il mantenimento della parola data a Cristo, attraverso un
consapevole e libero impegno celibatario per tutta la vita, incontra difficoltà,
viene messo alla prova, oppure è esposto alla tentazione, tutte cose che
non risparmiano il Sacerdote, come qualunque altro uomo e cristiano. In tale
momento ciascuno deve cercare sostegno nella preghiera più fervente.
Deve, mediante la preghiera, ritrovare in sé quell'atteggiamento di umiltà
e di sincerità riguardo a Dio e alla propria coscienza, che è
appunto la sorgente della forza per sorreggere ciò che vacilla. E' allora
che nasce una fiducia simile a quella che san Paolo ha espresso con le parole: «Tutto
io posso in colui che mi dà forza» (Fil 4,13). Queste verità
sono confermate dall'esperienza di numerosi Sacerdoti e provate dalla realtà
della vita. L'accettazione di esse costituisce la base della fedeltà alla
parola data a Cristo e alla Chiesa, che è in pari tempo la verifica
dell'autentica fedeltà a se stesso, alla propria coscienza, alla propria
umanità e dignità. A tutto ciò bisogna pensare soprattutto
nei momenti di crisi, e non già ricorrere alla dispensa, intesa quale «intervento
amministrativo», come se in realtà non si trattasse, al contrario,
di una profonda questione di coscienza e di una prova di umanità. Dio ha
diritto a tale prova nei riguardi di ciascuno di noi, se è vero che la
vita terrena è per ogni uomo un tempo di prova. Ma Dio vuole parimenti
che usciamo vittoriosi da tali prove, e ce ne dà l'aiuto adeguato.
Forse, non senza ragione, occorre qui aggiungere che l'impegno della fedeltà
coniugale, derivante dal sacramento del matrimonio, crea nel suo ambito obblighi
analoghi, e che talvolta esso diventa un terreno di analoghe prove ed esperienze
per gli sposi, mariti e mogli, i quali pure in queste «prove del fuoco»
hanno modo di verificare il valore del loro amore. L'amore, infatti, in ogni sua
dimensione non è soltanto chiamata, ma anche dovere. Aggiungiamo, infine,
che i nostri fratelli e sorelle legati dal matrimonio hanno il diritto di
aspettarsi da noi, Sacerdoti e Pastori, il buon esempio e la testimonianza della
fedeltà alla vocazione fino alla morte, fedeltà alla vocazione che
noi scegliamo mediante il sacramento dell'Ordine, come essi la scelgono mediante
il sacramento del matrimonio. Anche in questo ambito e in questo senso dobbiamo
intendere il nostro sacerdozio ministeriale come «subordinazione» al
sacerdozio comune di tutti i fedeli, dei laici, specialmente di coloro che
vivono nel matrimonio e formano una famiglia. In tal modo, noi serviamo «per
edificare il corpo di Cristo» (Ef 4,12); altrimenti, anziché
cooperare alla sua edificazione, ne indeboliamo la spirituale compagine. Con
questa edificazione del corpo di Cristo è strettamente collegato
l'autentico sviluppo della personalità umana di ogni cristiano - come
anche di ogni Sacerdote - che si realizza secondo la misura del dono di Cristo.
La disorganizzazione della compagine spirituale della Chiesa non favorisce
certamente lo sviluppo della personalità umana e non costituisce la sua
giusta verifica.