Giovanni Crisostomo
LA VERGINITÀ
I. La verginità praticata dagli eretici non comporta ricompense.
1. I
Giudei non riconoscono la bellezza della verginità: non c’è da meravigliarsene,
giacché non hanno rispettato neppure Cristo, nato da una vergine. I Greci,
invece, l’ammirano e la venerano, ma solo la Chiesa di Dio la imita con zelo.
Quanto alle vergini degli eretici, io non le chiamerei vergini, soprattutto
perché non sono pure: non vengono riservate ad un unico sposo, così come vuole
il beato apostolo che prepara le nozze di Cristo là dove dice: «Vi ho destinati
ad un unico uomo, per presentarvi a Cristo come una vergine pura». Queste
parole, anche se si riferiscono a tutta la Chiesa nella sua pienezza,
riguardano purtuttavia anche le vergini. Le donne che non amano un unico marito
e se ne sposano un secondo, come possono essere caste?
2. Innanzitutto, in base a questo ragionamento, non sono vergini. In
secondo luogo, si astengono dal matrimonio perché lo disprezzano. Avendo
stabilito in linea di principio che esso è una cosa cattiva, si privano fin dal
primo momento dei premi della verginità. Vuole la giustizia che coloro che non
commettono azioni delittuose restino solo esenti da pene, senza per questo
essere premiati, come si può vedere non solo nelle prescrizioni delle nostre
leggi, ma anche in quelle delle leggi pagane. La legge dice: «Chi uccide venga
mandato a morte», ma non aggiunge «chi non uccide venga onorato». «Il ladro
venga punito»: ma non è prescritto che chi non danneggia le cose altrui riceva
un dono. Così pure, le leggi che condannano a morte l’adultero non ritengono
degno di un’onorificenza colui che non rovina il matrimonio altrui. In questo
hanno perfettamente ragione, giacché la lode e l’ammirazione devono andare a
chi realizza il bene, non a chi non commette il male: per questi ultimi, un
premio sufficiente è rappresentato dal non subire alcuna punizione.
3. Per questo anche nostro Signore ha minacciato la Geenna a chi si adira
contro il proprio fratello a capriccio e senza motivo e lo chiama sciocco.
Purtuttavia, non ha promesso il regno dei cieli a coloro che non si adirano
senza ragione e che non muovono dei rimproveri: dicendo «Amate i vostri nemici»,
Egli ha preteso qualcosa di più importante e di più grande. Nell’intento di
mostrare come il non adirarsi con i propri fratelli sia una cosa infima, di
poco conto ed indegna di una qualsiasi ricompensa, ha detto che neanche l’amore
per loro – che pure vale già molto di più dell’altro atteggiamento – è
sufficiente per essere ritenuti degni di un premio. E come potrebbe esserlo, se
comportandoci così non abbiamo nulla in più dei pagani? Per poter chiedere un
premio, occorre fare in aggiunta un’altra cosa molto più importante. «Non
ritenerti degno di una corona – dice il Signore – solo perché non ti condanno
alla Geenna perché non hai rimproverato e non ti sei adirato. Io non mi limito
a pretendere questa piccola misura di bontà: anche se dici che non solo non
biasimi tuo fratello ma lo ami, resti ancora in basso e stai in compagnia dei
pubblicani. Se invece vuoi essere perfetto e diventare degno dei cieli, non
fermarti a questo ma sali più in alto, e pensa ad una cosa che oltrepassa la
natura stessa: si tratta dell’amore per i nemici.
4. Una volta ammessa l’assoluta verità di queste parole, cessino gli
eretici di mortificarsi senza ragione: tanto, non riceveranno alcuna
ricompensa. Non è che il Signore sia ingiusto – lungi da me quest’idea! Al
contrario, sono essi a comportarsi da stolti e da malvagi. Come mai? Abbiamo
mostrato che nessun premio tocca a chi si limita a non compiere azioni cattive.
Gli eretici evitano il matrimonio, perché lo ritengono una cosa cattiva. Come
potranno dunque richiedere un premio, per essersi tenuti lontani da una cosa
cattiva? Come noi non riteniamo degno di una ricompensa chi non è stato
adultero, così essi dovrebbero comportarsi verso chi non si sposa. Chi in quel
giorno li giudicherà dirà loro: «Io non ho riservato gli onori a chi si è
limitato soltanto a non commettere azioni cattive – questo è per me troppo poco
– ma conduco all’eredità dei cieli che non invecchia mai coloro che hanno
percorso tutta quanta la strada della virtù». Come mai allora voi, che ritenete
il matrimonio una cosa impura ed abominevole, solo perché lo evitate pretendete
i premi riservati a chi compie delle buone azioni?
5. Per questo Cristo mette alla sua destra le pecore, le benedice e le
conduce nel regno dei cieli: esse non si sono limitate a non rubare le cose
altrui, ma hanno distribuito agli altri i loro averi. Parimenti, Egli accoglie
colui al quale erano stati affidati cinque talenti non perché non ha fatto
diminuire quanto gli era stato dato, ma perché l’ha accresciuto, ed ha
restituito in misura doppia il danaro depositato. Quando cesserete dunque di
correre a vuoto, di stancarvi senza ragione, di dare pugni a caso e di percuotere
l’aria? E se si trattasse solo di un capriccio! Dopo avere tanto faticato ed
avere atteso una ricompensa maggiore delle fatiche sopportate, non è un piccolo
castigo vedersi messi, al momento della premiazione, tra coloro che rimangono
senza premio.
II. Gli eretici vengono puniti perché praticano la verginità.
1. Ma ciò che essi devono temere non consiste solo in questo, e le loro
pene non si limitano alla mancanza di ricompensa: altre molto più gravi li
attendono, quali il fuoco inestinguibile, i vermi che non muoiono, la tenebra
esterna, i tormenti, i gemiti. Ci occorrerebbero infinite lingue e la potenza
degli angeli per ringraziare in modo degno Dio della sua sollecitudine nei
nostri riguardi. Ma neanche in tali condizioni questo sarebbe possibile. E come
potrebbe esserlo? Noi e gli eretici dobbiamo compiere un uguale sforzo per
realizzare la verginità: anzi, può darsi che le loro fatiche siano molto più
aspre delle nostre. Il frutto degli sforzi non è però lo stesso: per loro sono
riservate le catene, le lacrime, i gemiti e le punizioni eterne; per noi, la
condizione degli angeli, le luci risplendenti, e l’intimità con lo sposo, che è
come la somma di tutti i beni.
2. Come mai allora gli stessi sforzi portano a ricompense contrarie? Ciò
accade perché essi hanno scelto la verginità per violare la legge di Dio,
mentre noi la pratichiamo per osservare i suoi voleri. Che Dio vuole che tutti
gli uomini si astengano dal matrimonio, lo testimonia colui che fa parlare
Cristo in se stesso: «Voglio – egli dice – che tutti gli uomini siano come me»,
vale a dire continenti. Purtuttavia il Signore, volendoci risparmiare e sapendo
bene che «lo spirito è pronto, ma la carne è debole» non ha fatto della
continenza un precetto obbligatorio, ma ha concesso alla nostra anima la facoltà
di sceglierla. Se si trattasse di un comandamento e di una legge, chi la
pratica non godrebbe di un’onorificenza, ma si sentirebbe dire «Avete fatto ciò
che dovevate fare», ed i peccatori non otterrebbero il perdono, ma sarebbero
soggetti alla punizione assegnata ai trasgressori. Con le parole «Chi è in
grado di comprendere comprenda», il Signore non ha condannato chi non è capace
di praticare la verginità, ma ha voluto mostrare l’importanza e la sublimità
della lotta che deve sostenere chi ha la forza di realizzarla. Per questo anche
Paolo, seguendo le tracce del maestro, dice: «Non ho con me un ordine del
Signore, esprimo solo il mio parere».
III. L’orrore per il matrimonio è proprio di una satanica mancanza di
umanità.
Né Marcione né Valentino né Mani si sono attenuti a tale moderazione. Non
parlava in loro Cristo che aveva riguardo per le sue pecore e che offriva la
propria vita per loro, ma il padre della menzogna, il distruttore degli uomini.
Per questo essi mandano alla perdizione tutti i loro seguaci: in questo mondo,
li caricano di fatiche sterili ed insopportabili; nell’al di là, li trascinano
con sé nel fuoco preparato per loro.
IV. Gli eretici, praticando la verginità, vanno incontro ad un destino più
penoso di quello dei Greci.
1. Quanto siete più sfortunati dei Greci! I Greci infatti, anche se gli
orrori della geenna li attendono, riescono purtuttavia a godere in questo
mondo, giacché si sposano e traggono profitto dalle ricchezze e dagli altri
piaceri della vita. Per voi ci sono invece soltanto i tormenti e i dolori sia
in questa che nell’altra vita: in questa vita siete voi a sopportarli
volontariamente, nell’altra li dovrete sopportare pur non volendoli. I Greci
non verranno né ricompensati né puniti per i loro digiuni e per la loro
verginità; voi, invece, subirete l’estremo castigo per la condotta dalla quale
vi aspettavate infinite lodi, e mischiati agli altri rei sentirete le parole: «Andatevene
via da me nel fuoco preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché avete
digiunato e siete rimasti vergini.
2. Il digiuno e la verginità non rappresentano in se stessi né un bene né
un male, ma diventano l’una o l’altra cosa a seconda della disposizione di
coloro che li praticano. Per i Greci tale virtù è sterile: ricevono la
ricompensa che meritano, giacché non l’hanno praticata nel timore di Dio. Voi
invece, che combattete Dio e calunniate le sue creature, non solo non
riceverete alcuna ricompensa, ma sarete anche puniti. Per quanto riguarda la
vostra dottrina, sarete messi insieme a loro perché come loro avete rinnegato
il Dio esistente ed introdotto il politeismo; per quanto riguarda invece la
vostra condotta di vita, essi staranno meglio di voi: mentre infatti la loro
pena consiste soltanto nel non ricevere alcun bene, per voi consiste nel patire
in aggiunta dei mali; e mentre essi possono godere di tutto in questa vita, voi
siete privi sia dei beni presenti che dei futuri.
3. C’è forse un castigo maggiore di quello che consiste nel ricevere una
punizione come ricompensa delle proprie fatiche e dei propri sudori?
L’adultero, l’avido, colui che si approfitta dei beni altrui e che si prende
quelli del suo prossimo hanno una consolazione, sia pure piccola: per lo meno,
sono puniti a causa di quelle cose di cui hanno goduto in questa vita. Nel caso
invece di colui che accetta di buon grado di sopportare la povertà per essere
ricco nell’altra vita e di sostenere le fatiche della verginità per far parte
dei cori degli angeli nell’al di là, e che invece, improvvisamente e contro ogni
sua aspettativa, è punito per quella condotta grazie alla quale sperava di
godere di un’infinità di beni, non è possibile esprimere con le parole il suo
dolore, dovuto al fatto che deve soffrire in questo modo contro tutte le sue
speranze. A mio parere, egli è tormentato ugualmente dal fuoco e dalla sua
coscienza, giacché deve fare questa constatazione: mentre coloro che hanno
faticato come lui si trovano assieme a Cristo, egli è sottoposto al castigo
estremo per quella condotta che fa godere agli altri i beni ineffabili; e, pur
avendo vissuto in modo austero, è costretto a soffrire più dei dissoluti e dei
lussuriosi.
V. La verginità degli eretici è più impura dell’adulterio.
1. In effetti, la temperanza degli eretici è peggiore di ogni tipo di
dissolutezza. Mentre l’ingiustizia di quest’ultimo si ferma agli uomini, la
prima combatte Dio ed offende la sua infinita sapienza. Tali trappole i1
diavolo tende a coloro che lo venerano. Che la verginità degli eretici sia
proprio un ritrovato della sua malvagità non sono io a dirlo, ma colui che non
ignora i suoi pensieri.
2. Che cosa soggiunge dunque costui? «Lo spirito dice apertamente che
negli ultimi momenti alcuni si allontaneranno dalla fede per seguire gli
spiriti ingannatori e gl’insegnamenti dei demoni che, come ipocriti mentitori,
marchiano la propria coscienza, che vietano di sposarsi e che impongono
l’astinenza dei cibi creati da Dio per essere presi». Come fa dunque ad essere
vergine colei che abbandona la fede, che segue l’errore, che ascolta i demoni e
che onora la menzogna? Come può essere vergine colei che marchia la propria
coscienza? La vergine che vuole ricevere il santo sposo deve essere pura non
solo nel corpo ma anche nell’anima. Ma tale vergine come fa ad essere pura, se
ha dei marchi così forti? Come può preservare la bellezza della verginità
quando un pensiero empio si agita in lei, se deve scacciare dalla camera
nuziale anche i pensieri temporali perché non può rimanere composta se li fa
albergare in sé?
VI. Gli eretici quando praticano la verginità contaminano non solo la loro
anima ma anche i loro corpi.
1. In effetti, anche se il suo corpo rimane puro, si corrompe sempre la
parte migliore della sua anima, vale a dire i suoi pensieri. Che utilità c’è
nel far restare in piedi il recinto, quando il tempio è andato distrutto? O
quale guadagno si ricava dal fatto che la sede del trono resta pulita, quando
il trono è stato sporcato? Ma neanche in tal caso il corpo resta esente dalla
contaminazione. Le parole blasfeme e cattive nascono dentro l’anima, ma non vi
rimangono: quando vengono fuori, tramite la bocca che le proferisce contaminano
sia la lingua che l’orecchio che le riceve, e dopo essersi riversate nell’anima
come dei farmaci deleteri ne corrodono la radice in modo più grave di qualsiasi
verme, finendo con il distruggere assieme ad essa tutto quanto il corpo. Se
dunque la verginità consiste nella santità di corpo e di spirito, e se una
donna simile è empia e contaminata in entrambi questi elementi, come può essa
dirsi vergine? Ma mi mostra un viso pallido, delle membra consunte, una veste
semplice ed uno sguardo mite. Ma che utilità c’è in queste cose, se lo sguardo
interiore è sfrontato? Quale sguardo è più sfrontato di quello che induce gli
occhi esterni a considerare cattive le creature di Dio?
2. «Tutta la gloria della figlia del re viene dal di dentro». Costei ha
invertito l’ordine illustrato da tale frase: all’esterno si riveste di gloria,
mentre dentro ospita ogni infamia. Il brutto consiste proprio in questo: di
fronte agli uomini, essa fa mostra di una grande mitezza, mentre nei riguardi
di Dio suo creatore dà prova di un’enorme follia, e pur non sopportando di
guardare in viso un uomo – ammettiamo pure che tra le loro vergini ce ne siano
alcune di tal fatta – guarda il signore degli uomini con occhi sfrontati e fa
salire in alto i suoi discorsi ingiusti. Il loro volto è giallo come il legno
di bosso, e simile a quello di un cadavere. Per questo sono degne di essere
molto compiante e commiserate: lo stato miserando che hanno accettato non solo è
inutile, ma le rovina e ricade sulla loro testa.
VII. Bisogna giudicare la verginità non dalle vesti, ma dall’anima.
1. La veste è modesta. La verginità non risiede però nelle vesti né nel
colore della pelle, ma nell’anima e nel corpo. Se il filosofo non si giudica né
dai capelli né dal bastone né dalla bisaccia ma dal suo modo di fare e
dall’anima, e se il soldato non si valuta in base al mantello o alla cintura,
ma in base alla forza ed al coraggio, non sarebbe assurdo attribuire ad una giovane
la virtù della verginità – una cosa così mirabile, che trascende ogni qualità
umana – servendosi di criteri così semplici e secondari come i capelli sudici,
il volto dimesso e la veste lugubre, senza mettere a nudo la sua anima ed
esaminare quindi per bene la sua disposizione?
2. Questo non è consentito da colui che ha stabilito le regole di tale
gara. Egli ci ordina di giudicare coloro che vi s’impegnano non dalle loro
vesti, ma dalle loro convinzioni e dalla loro anima. «Chi compete – dice – è
temperante in tutto», vale a dire in tutto ciò che pregiudica la salute
dell’anima, ed aggiunge: «Nessuno può essere incoronato, se non gareggia
secondo le regole». Quali sono dunque le regole di questa gara? Ascolta di
nuovo le sue parole, o piuttosto Cristo stesso, l’istitutore della gara: «Affinché
la vergine sia pura nel corpo e nello spirito», « prezioso è il matrimonio, ed
il letto nuziale è incontaminato».
VIII. È dannoso per la vergine mostrarsi altera nei confronti delle
persone sposate.
1. La vergine potrebbe rispondermi: «Che cosa m’importa di queste cose,
una volta che ho detto addio al matrimonio?». Ma è proprio la convinzione di
non avere niente a che fare con la dottrina del matrimonio a perderti, o
misera. Disprezzando senza misura quest’istituzione, rechi offesa alla sapienza
di Dio e calunni tutta la creazione. Se infatti il matrimonio è una cosa
impura, tutti gli esseri viventi che vengono generati tramite esso sono impuri,
ed impure siete anche voi, per non parlare della natura umana. Come può dunque
una donna impura essere vergine? Avete escogitato un secondo, o piuttosto un
terzo modo di contaminare e di sporcare: quando rifuggite dal matrimonio come
da una cosa impura, proprio perché ne rifuggite diventate le donne più impure e
rendete la verginità più abominevole della fornicazione.
2. Con chi vi metteremo allora? Assieme agli Ebrei? Ma essi non lo
consentirebbero, perché onorano il matrimonio ed ammirano l’opera creatrice di
Dio. Oppure insieme a noi? Ma non volete ascoltare Cristo, quando dice per
bocca di Paolo: «Il matrimonio è onorato da tutti, ed il letto nuziale è
incontaminato». Vi resta un posto vicino ai Greci. Anche questi però vi
respingeranno come empi. Dice infatti Platone: «Chi ha formato quest’universo è
buono». Nessuna invidia tocca una cosa buona in nessun caso. Tu invece
consideri Dio cattivo, ed autore di opere cattive. Ma non temere: il tuo
insegnamento è condiviso dal diavolo e dai suoi angeli; ma no, neanche essi
sono d’accordo: non credere che la pensino così solo perché t’inducono a
nutrire dei pensieri così stolti. Che si rendono conto della bontà di Dio, puoi
sentire dalle loro grida: ora dicono «Sappiamo chi sei, il santo di Dio», ora
invece «Gli uomini che annunziano la strada della salvezza sono i servi del Dio
altissimo».
3. Continuerete dunque a parlare di verginità e a vantarvene? Non andrete
piuttosto a rinchiudervi ed a piangere sulla vostra stoltezza, servendosi della
quale il diavolo vi ha legate come prigioniere per gettarvi nel fuoco della
Geenna? Non ti sei sposata? Ma non per questo sei vergine. Io chiamo vergine
colei che pur essendo padrona di sposarsi non ha scelto il matrimonio. Se
invece tu dici che il matrimonio è una cosa proibita, la tua azione non dipende
più da una scelta ma dalla costrizione della legge. Per questo noi ammiriamo i
Persiani che non commettono l’incesto, ma non i Romani. Questi ultimi lo
considerano una cosa assolutamente abominevole, mentre nel caso dei primi
l’impunità di cui gode chi osa praticarlo attira le lodi su coloro che si
astengono da tali accoppiamenti.
4. Secondo lo stesso criterio va esaminato il matrimonio. Poiché esso è
consentito tra noi, abbiamo tutte le ragioni per ammirare chi non si sposa. Voi
invece, respingendolo ad un livello inferiore, non potete reclamare le lodi
dovute all’astinenza: l’astenersi dalle cose proibite non si addice ad un’anima
nobile e generosa. La virtù perfetta non consiste nel non commettere azioni
che, se vengono commesse, ci fanno sembrare a tutti cattivi, ma nel
distinguersi in pratiche che non mettono in cattiva luce coloro che non le
abbracciano e che non solo allontanano da una reputazione cattiva, ma fanno
entrare nella schiera dei buoni coloro che le scelgono e le seguono.
5. Come nessuno sarebbe disposto a lodare la verginità degli eunuchi per
il fatto che non si sposano, così nessuno loda voi. Ciò che per loro è dettato
dalla necessità naturale, diventa in voi un pregiudizio della vostra coscienza
perversa. E come la mutilazione corporea priva gli eunuchi della gloria
derivante dall’astinenza, così, nel vostro caso, anche se il fisico resta
integro, il diavolo distrugge ogni retto pensiero, vi mette nella condizione di
non sposarvi, vi sforza con delle fatiche e vi priva di ogni onore. Tu vieti il
matrimonio? Per questo dalla tua rinunzia non ti verranno premi, ma solo
supplizi e castighi.
IX. Esortare alla verginità non significa vietare il matrimonio.
1. «E tu – mi si dice – non proibisci il matrimonio?». Non sia mai! Mi
auguro di non essere mai pazzo come te. «E come mai allora – si continua a
dirmi – esorti le persone a non sposarsi?». Io lo faccio perché sono convinto
che la verginità è molto più pregevole del matrimonio, ma non per questo
considero il matrimonio una cosa cattiva: anzi, lo lodo molto. Per coloro che
intendono farne un buon uso, esso è il porto della continenza, giacché
impedisce alla natura d’inferocirsi. Presentando l’accoppiamento legittimo come
una diga e ricevendo così i flutti del desiderio, introduce in noi una grande
calma e ci custodisce. Ci sono però alcuni che non hanno bisogno di questa
protezione: invece di ricorrere ad essa, placano le follie della natura con i
digiuni, con le veglie, con il dormire per terra e con altri duri esercizi. Pur
non vietando il matrimonio, io esorto questi ultimi a non sposarsi.
2. C’è una grande differenza tra una cosa e l’altra, tra la costrizione e
la libera scelta. Chi consiglia lascia l’ascoltatore padrone della scelta tra
le cose sulle quali consiglia, chi invece pone dei divieti priva l’altro di
questa facoltà. Inoltre, quando esorto, io non considero cattivo il matrimonio,
né accuso chi non mi ubbidisce. Tu invece, calunniandolo e dichiarandolo
cattivo, usurpi la funzione del legislatore senza essere un consigliere, e non
puoi non odiare chi non ti ascolta. Io non mi comporto così: ammiro chi si
iscrive a tale gara, ma non condanno coloro che rimangono fuori della
competizione.
3. L’accusa sarebbe giusta se si propendesse per qualcosa che è cattiva
per comune ammissione. Chi però ha un bene minore e non può raggiungere il
maggiore, anche se resta privo delle lodi e dell’ammirazione che quest’ultimo
comporta, non merita di essere condannato. Come posso dunque vietare il
matrimonio, se non condanno chi si sposa? Io vieto la fornicazione e
l’adulterio, non il matrimonio. Punisco coloro che osano praticare le prime due
cose e li bandisco dal corpo della chiesa, ma continuo a lodare coloro che
contraggono il matrimonio, se sono continenti. Ci sono così due vantaggi: da
una parte, non si calunnia l’opera creatrice di Dio, dall’altra non solo non si
distrugge la dignità della verginità, ma la si rende ancora più venerabile.
X. Chi denigra il matrimonio reca un torto alla verginità.
1. Chi denigra il matrimonio reca anche un torto alla verginità; chi
invece lo loda, eleva e fa risplendere ancora di più la natura straordinaria
dello stato verginale. Ciò che sembra bello solo in rapporto a ciò che è brutto
non può essere molto bello; quella che è invece la migliore delle cose
considerate buone, è la cosa più bella in senso assoluto: è sotto questa luce
che vogliamo mostrare la verginità. Come coloro che denigrano il matrimonio
nuocciono anche alle lodi della verginità, così chi lo tiene lontano dalle
critiche fa le lodi non tanto di esso quanto della verginità. Anche nel caso
dei corpi, noi chiamiamo belli non quelli che sono migliori dei corpi mutilati,
ma quelli che sono migliori dei corpi ben fatti e privi di difetti.
2. Il matrimonio è una bella cosa? Allora la verginità è una cosa
straordinaria perché è superiore ad una cosa che è già bella; e le è superiore
nella misura in cui il pilota è superiore ai marinai, o i1 generale è superiore
ai soldati. Ma come, nel caso della nave, se si eliminano i rematori si fa
affondare l’imbarcazione, e come in guerra se si allontanano i soldati si
consegna il generale prigioniero al nemico, così anche nel caso che stiamo
trattando, se si priva il matrimonio del suo rango elevato si tradisce la
gloria della verginità e la si fa cadere al livello più basso.
3. La verginità è bella? Son d’accordo anch’io. È superiore al matrimonio?
Ammetto anche questo. Se vuoi, per dare un’idea della misura della sua
superiorità, posso citare come esempi la superiorità del cielo sulla terra, o
quella degli angeli sugli uomini; se poi dovessi esprimermi in modo più ardito,
direi che si tratta di una superiorità ancora maggiore. È vero infatti che gli
angeli non sposano né vengono sposati: ma essi non sono strettamente uniti alla
carne ed al sangue, non soggiornano sulla terra, non devono sopportare una moltitudine
di desideri, non hanno bisogno di cibi e bevande, non possono essere blanditi
da un dolce canto né impressionati da una visione stupenda o da altre simili
cose; come si può osservare la purezza del cielo nel pieno pomeriggio, quando
non è offuscata da nessuna nuvola, così le loro nature non possono non rimanere
trasparenti e luminose quando nessun desiderio le ottenebra.
XI. La verginità trasforma in angeli gli uomini che l’abbracciano
veramente.
1. Il genere umano, per natura inferiore agli angeli beati, fa violenza
alle proprie facoltà e cerca con il suo impegno di uguagliarli per quanto è
possibile. Come può avvenire questo? Gli angeli non sposano né vengono sposati:
ma neanche la vergine lo fa; gli angeli rimangono ininterrottamente vicini a
Dio e lo servono: ma così si comporta anche la vergine. Anche Paolo vuole che
le vergini restino lontane da ogni preoccupazione, perché possano essere
assidue senza distrarsi. E se, a differenza degli angeli, non possono salire al
cielo perché sono trascinate in basso dalla carne, purtuttavia anche in questo
mondo godono di una grande consolazione: se rimangono sante nel corpo e nello
spirito, possono ricevere il padrone dei cieli in persona.
2. Comprendi la dignità della verginità, e come essa renda la vita di
coloro che vivono sulla terra simile a quella di coloro che stanno in cielo?
Essa impedisce a chi ha un corpo di restare inferiore alle potenze incorporee,
e porta gli uomini ad emulare gli angeli. Ma nulla di tutto ciò riguarda voi
eretici, che danneggiate un simile stato, che calunniate il Signore e che lo
chiamate cattivo. Vi attende il castigo riservato al servo cattivo; alle
vergini della chiesa si presenteranno invece molti e grandi beni, superiori
agli occhi, alle orecchie ed ai pensieri umani. Lasciamo quindi gli eretici –
ne abbiamo già parlato abbastanza – e rivolgiamoci d’ora in poi ai figli della
chiesa.
XII. Paolo, quando disse: «Agli altri sono io a parlare non il Signore»,
non diede un consiglio umano.
1. Da dove è bene far cominciare il nostro discorso? Dalle parole stesse
che il Signore pronunziò per bocca del beato Paolo. Paolo infatti, quando dice «Agli
sposati non sono io a parlare, ma il Signore» non intende dire che le sue
parole sono una cosa, e quelle del Signore un’altra. Colui che fa parlare
Cristo in sé, che non si preoccupa neppure di vivere in modo che Cristo possa
vivere in lui, che pospone all’amore per lui i regni, la vita, gli angeli, le
potenze, ogni altra creatura ed in una parola ogni cosa, come potrebbe di buon
grado – specie quando dà dei precetti – dire o pensare qualcosa che non piace
al Signore?
2. Che cosa significano le sue parole «Io» e «Non io»? Cristo ci ha dato
le leggi e gl’insegnamenti in parte direttamente, in parte tramite gli
apostoli. Che egli non stabilì tutto direttamente, lo puoi sentire dalle sue
stesse parole: «Avrei molte cose da dirvi, ma non potete ancora sopportarne il
peso». Il precetto «La donna non si separi dall’uomo» Egli l’aveva dato già
prima, quando si trovava ancora su questa terra rivestito di carne. Per questo
Paolo dice: «Agli sposati non sono io a parlare, ma il Signore». Agl’infedeli
invece Egli non parlò direttamente, ma diede delle prescrizioni, ispirando a
tal fine l’anima di Paolo e facendogli dire: «Chi ha una moglie non credente
che desidera abitare con lui, non la ripudi; e la moglie che ha un marito non
credente che desidera abitare con lei non lo ripudi».
3. Per questa ragione, quando disse «Non è il Signore a parlare, ma sono
io», non volle affermare che le sue parole erano umane – e come avrebbero
potuto esserlo? – ma che il Signore ha dato questo comandamento non quando si
trovava assieme agli apostoli, ma adesso, tramite lui. Come dunque le parole «Il
Signore, non io» non indicano una contrapposizione nei confronti dei comandamenti
di Cristo, cosí le parole «Io, non il Signore», non sono state pronunziate da
chi vuol dire qualcosa di personale e di diverso da ciò che piace a Dio, rna da
chi vuol far vedere soltanto che il comandamento viene dato ora per suo
tramite.
4. Parlando della vedova, Paolo dice «A mio parere, è più beata se resta
cosí». E perché nessuno, sentendo le parole «A mio parere», pensasse che il suo
fosse un pensiero umano, eliminò ogni sospetto aggiungendo: «Penso di avere
anch’io lo spirito di Dio». Come dunque noi non possiamo dire che le sue siano
affermazioni umane, solo perché colui che parla in nome dello spirito dice «A
mio parere», cosí anche nel nostro caso, quando dice «Sono io a parlare, non il
Signore», non bisogna credere che la frase sia di Paolo. Egli faceva parlare
Cristo in sé e non avrebbe osato fissare tale insegnamento in una sua
affermazione, se non ci avesse portato questa legge da lassù.
5. Qualcuno avrebbe potuto dirgli: «Io che ho la fede e che sono puro non
sopporto di stare assieme ad una donna che non possiede nessuna fede e che è
impura. Tu stesso hai detto prima che sei un, e non il Signore, a dire queste
cose. Quale sicurezza e certezza posso avere?». Ma Paolo gli avrebbe risposto: «Non
temere. Ho detto che faccio parlare Cristo in me e che credo di possedere lo
spirito di Dio proprio perché non ti venisse il sospetto che le mie parole
fossero umane. Se esse lo fossero, non avrei mai dato ai miei pensieri tanta
autorità. I calcoli degli uomini sono vili, i loro pensieri ingannevoli. Anche
la chiesa universale mostra la forza di questa legge custodendola severamente:
non la custodirebbe cosí, se non fosse fermamente convinta che queste parole
rappresentano un comandamento di Cristo».
6. Che cosa dice dunque Paolo, ricevendo l’eco delle parole di Cristo? «Per
quanto riguarda ciò su cui mi avete scritto, è bene per un uomo non toccare una
donna». A tal proposito ci si potrebbe rallegrare con Corinzi, che pur non
avendo ricevuto alcun consiglio dal maestro sulla verginità, lo prevengono
interrogandolo e facendo mostra cosí dei progressi compiuti sotto l’azione
della grazia. Nel Vecchio Testamento non sussistevano dubbi sul matrimonio: non
solo tutto il popolo, ma anche i Leviti, i sacerdoti e lo stesso gran sacerdote
gli attribuivano una grande importanza.
XIII. Perché i Corinzi scrissero a Paolo sulla verginità, e perché egli
prima di allora non aveva rivolto loro alcuna esortazione.
1. Come mai dunque i Corinzi giunsero a rivolger questa domanda? Data la
loro perspicacia, sapevano bene di avere bisogno di un più alto grado di virtù,
giacché erano stati ritenuti degni di un dono più grande. Vale anche la pena di
chiedersi come mai Paolo non avesse mai rivolto loro quest’esortazione: se
avessero sentito qualcosa in proposito, essi non gli avrebbero scritto di nuovo
facendogli domande su questo argomento. Anche in questo caso ci si può rendere
conto della profondità della sapienza di Paolo. Non rivolse senza motivo né a
caso un’esortazione su di un tema cosí importante, ma aspettò che in loro
nascessero prima il desiderio ed il pensiero di quest’ideale: se si fosse
trovato di fronte ad anime già preparate alla verginità, avrebbe potuto gettare
con più efficacia i suoi semi, giacché la disposizione d’animo degli
ascoltatori nei riguardi dell’argomento avrebbe facilitato di molto
l’accoglimento dei suoi consigli. D’altra parte, l’apostolo volle anche far
notare l’importanza e la grande solennità dell’impresa.
2. In caso contrario, non avrebbe aspettato la loro buona disposizione
d’animo, ma avrebbe subito spiegato i termini del problema, presentandolo, se
non come un’ingiunzione o un comandamento, per lo meno come un’esortazione o un
consiglio. Non avendo osato fare neppure questo, ci ha fatto vedere che la
verginità richiede molto sudore e grandi lotte. Anche in questo caso si comportò
cosí perché volle imitare nostro Signore. Anche nostro Signore parlò infatti
della verginità soltanto quando i suoi discepoli gli fecero domande in
proposito.
3. Quando essi dissero: «Se questa è la condizione dell’uomo quando si
trova in compagnia della donna, conviene non sposarsi», rispose: «Vi sono degli
eunuchi che si sono resi tali per il regno dei cieli». Quando la virtù da
realizzare è molto alta e per questo non può essere rinchiusa nella costrizione
di un comandamento, bisogna attendere la buona disposizione di coloro che
intendono realizzarla, infondendo in loro la volontà necessaria in un altro
modo e senza destare sospetti: cosí fece appunto Cristo. Non li portò a
desiderare la verginità parlando di essa: discorrendo solo sul matrimonio,
mostrando il peso di questo stato e limitando il suo discorso a
quest’argomento, con la sua accortezza fece in modo che essi, pur non avendo
sentito parlare della verginità, dicessero di propria iniziativa: «È meglio non
sposarsi».
4. Per questa ragione Paolo, l’imitatore di Cristo, disse «Riguardo a ciò
su cui mi avete scritto», quasi volesse scusarsi con loro parlando cosí, e dire
«Io non osavo condurvi ad un cosí alto ideale, data la difficoltà dell’impresa,
ma poiché voi mi avete scritto di vostra iniziativa, ho trovato il coraggio di
darvi questo consiglio: è una buona cosa per l’uomo non toccare una donna».
Come mai, pur avendo i Corinzi scritto su molti argomenti, egli non aveva mai
aggiunto quest’esortazione? Solo per il motivo che ho spiegato adesso: per
evitare che qualcuno accogliesse male il suo consiglio, ricordò la lettera da
loro inviata. Ma neanche allora, pur avendo avuto tale spunto, rivolse
un’esortazione veemente: usò invece un tono dimesso, imitando anche in questo
Cristo. Il Salvatore infatti, concluso il discorso sulla verginità, aggiunse: «Chi
è in grado d’intendere, intenda». E l’apostolo cosa disse? «Riguardo a ciò su
cui mi avete scritto, è una buona cosa per l’uomo non toccare una donna».
XIV. Obiezione di coloro che rifiutano la verginità e sua confutazione
1. Ma qualcuno potrebbe forse obiettare: «Se è bene non toccare la donna,
a che scopo il matrimonio si è introdotto nella vita? Quale altro uso potremo
fare della donna, se non ci può essere utile né per il matrimonio né per la
procreazione? Che cosa potrà impedire la distruzione del genere umano, se ogni
giorno la morte si pascola di esso e lo falcia, mentre tale ragionamento vieta
di far sorgere altri al posto di quelli caduti? Se tutti volessimo realizzare
questo bell’ideale e non toccassimo la donna, tutto andrebbe distrutto: le città,
le case, i campi, le arti, gli animali, le piante. Come infatti quando cade il
generale l’esercito perde necessariamente il suo ordine, cosí una volta eliminato
con l’astinenza dal matrimonio l’uomo, il re della terra, nessun’altra cosa
potrà conservare la sua sicurezza ed il suo ordine, e questo bel consiglio
riempirà la terra d’infiniti mali».
2. Se queste parole fossero pronunziate soltanto dai nostri nemici e
dagl’infedeli, non me ne curerei molto. Poiché però parlano cosí anche molti
presunti membri della chiesa, che per debolezza di volontà non riescono a
sobbarcarsi alle fatiche richieste dalla verginità e che cercano di nascondere
la propria pigrizia denigrando questa pratica e mostrandone l’inutilità, in
modo da dare l’impressione di essere rimasti indietro non per trascuratezza ma
per un retto modo di ragionare, lasciamo pure da parte i nemici – «l’uomo
psichico non comprende infatti le cose dello spirito, che per lui sono
sciocchezze» – ed insegniamo due cose a coloro che fingono di stare dalla
nostra parte: da un lato, la pratica della verginità non è superflua, ma al
contrario di grande utilità e necessaria; dall’altro, l’accusa rivolta contro di
essa non può restare impunita, ma attira sui detrattori dei pericoli pari ai
premi ed alle lodi che toccano a chi riesce a realizzare lo stato verginale.
3. Dopo che tutto l’universo fu creato e tutto fu approntato per il nostro
riposo ed il nostro uso, Dio formò l’uomo, per il quale aveva creato il mondo.
L’uomo, una volta formato, rimase nel paradiso: del matrimonio non si faceva
parola. Aveva bisogno di un aiuto; l’aiuto gli venne, e neanche allora il
matrimonio sembrava necessario. Non s’intravedeva neppure: essi vivevano
ignorandolo, soggiornando nel paradiso come in cielo e rallegrandosi della
familiarità con Dio. Il desiderio di unione, il concepimento, i dolori del
parto, le generazioni e qualsiasi tipo di corruzione erano banditi dalla loro
anima. Simili ad un corso d’acqua trasparente che sgorga da una fonte pura, se
ne stavano in quel luogo adorni della verginità.
4. Allora tutta la terra era priva di uomini: c’era proprio quello che ora
temono certe persone, che si preoccupano del mondo abitato, che si danno gran
pensiero delle cose altrui ma che non sopportano neppure il ricordo delle
proprie, che temono la scomparsa di tutto il genere umano ma che trascurano la
propria anima come se fosse una cosa estranea; eppure, per quanto riguarda
quest’ultima, dovranno rendere conto esattamente anche delle mancanze più
piccole, mentre non dovranno fornire neanche la più piccola spiegazione sulla
nascita degli uomini.
5. Non c’erano allora né città, né arti, né case, di cui voi tanto vi
preoccupate: tutto questo non esisteva, e purtuttavia nulla ostacolava o
impediva quella vita beata, tanto migliore della presente. Ma dopo avere
disobbedito a Dio ed essere divenuti terra e cenere, persero insieme a
quell’esistenza beata anche la bellezza della verginità, che li abbandonò per
ritirarsi con Dio. Finché rimasero insensibili al diavolo e riverirono il loro
padrone, anche la verginità rimase ad adornarli più di quanto i diademi o le
vesti d’oro facciano con i re. Ma quando, divenuti prigionieri del diavolo,
dovettero deporre questa veste regale e l’ornamento celeste, attirando su di sé
la corruzione propria della morte, la maledizione, i dolori e le fatiche della
vita, allora assieme a tutti questi mali sopraggiunse anche il matrimonio, un
abito mortale e degno di uno schiavo.
6. «Chi infatti si sposa – dice l’apostolo – si preoccupa delle cose del
mondo». Vedi qual è l’origine del matrimonio? Perché sembrò necessario? Esso
deriva dalla disobbedienza, dalla maledizione, dalla morte. Dove c’è la morte,
lì c’è anche il matrimonio: se la morte non c’è, neanche il matrimonio
sopravviene. La verginità, invece, non fa parte di questa catena, ma è sempre
utile, sempre bella e sempre beata, ed esiste sia prima che dopo la morte, sia
prima del matrimonio che dopo di esso. Quale matrimonio, dimmi, ha fatto
nascere Adamo? Quali dolori hanno generato Eva? Non puoi rispondermi. Perché
allora, senz’alcun motivo, temi tanto che, cessando il matrimonio, scompaia
anche il genere umano? Un’infinità di angeli serve Dio, migliaia e migliaia di
arcangeli gli sono vicini, e nessuno di loro è nato dalla generazione, dal
parto, dai dolori e dal concepimento. Non avrebbe dunque potuto Dio, a maggior
ragione, creare gli uomini prescindendo dal matrimonio? Cosí creò i primi
progenitori, dai quali discendono tutti gli uomini.
XV. Non è il matrimonio ad accrescere il genere umano
1. La nostra razza è conservata non dalla forza del matrimonio, ma dalla
parola del Signore, che disse all’inizio: «Crescete, moltiplicatevi e riempite
la terra». Che cosa infatti, dimmi, ha spinto Abramo alla procreazione? Non è
forse vero che, dopo avere usufruito per tanti anni del matrimonio, pronunziò
infine questa frase: «O Signore, che cosa mi dirai? Dovrò morire senza figli?»
Come allora Dio fece di corpi consunti il principio e la radice di tante
miriadi di persone, cosí anche all’inizio, se Adamo e la sua compagna avessero
obbedito al suo ordine e saputo dominare il piacere acceso dall’albero
proibito, non gli sarebbe mancato il modo di accrescere la razza umana. In
effetti, né il matrimonio è in grado di moltiplicare uomini esistenti se Dio
non lo vuole, né la verginità di diminuirne il numero, se Egli vuole che siano
molti. Egli cosí dispose – dice la Scrittura – per colpa nostra e della nostra
disobbedienza.
2. Perché infatti il matrimonio non comparve prima della trasgressione?
Perché nel paradiso non vi furono congiungimenti? Perché i dolori del parto non
esistevano prima della maledizione? Perché allora tutto questo era superfluo,
mentre divenne poi necessario a causa della nostra debolezza; mi riferisco sia
a ciò di cui ho parlato, sia a tutto il resto: alle città, alle arti, alla
necessità d’indossare gli abiti, e a tutti gli altri innumerevoli bisogni. È
stata la morte ad introdurre tutto questo, trascinandoselo con sé. Non devi
quindi onorare più della verginità ciò che ti fu concesso a causa della tua
debolezza, e non devi neppure mettere le due cose sullo stesso piano:
procedendo secondo questo ragionamento, giungerai a dire che è meglio avere due
mogli piuttosto che contentarsi di una sola, giacché anche questo fu consentito
dalla legge di Mosè; allo stesso modo, preferirai le ricchezze alla povertà
volontaria, il lusso alla vita temperante, e la vendetta alla nobile
sopportazione delle offese.
XVI. II matrimonio è una concessione
1. «Ma tu denigri tutto questo», mi si obietta. Io non denigro affatto:
Dio l’ha concesso, ed a suo tempo si è rivelato utile. Quello che però dico, è
che si tratta di ben poca cosa, di una virtù propria più dei bambini che degli
uomini. Per questo Cristo, nell’intento di renderci perfetti, ci ha comandato
di spogliarci di esso come se fosse un vestito per bambini che non può
ricoprire un uomo perfetto né essere un ornamento adatto «all’età della
pienezza di Cristo», e d’indossare altri abiti più convenienti e più perfetti
dei primi, senza contraddirsi nelle sue prescrizioni ma rimanendo in perfetto
accordo con se stesso.
2. Infatti, anche se questi comandamenti sono più severi di quelli
antichi, lo scopo del legislatore resta identico. Di che cosa si tratta? Si
tratta di eliminare il vizio della nostra anima e di ricondurla alla virtù
perfetta. Se si fosse preoccupato non di dare comandamenti più severi dei
precedenti, ma di lasciare le cose sempre nello stesso stato e di non elevarle
mai al di sopra della loro mediocrità, allora veramente sarebbe stato in
contraddizione con se stesso. Se all’inizio, quando il genere umano era più
infantile, avesse prescritto questa rigida norma di vita, noi non avremmo
ricevuto un comandamento proporzionato alle nostre possibilità, e tutta la
nostra salvezza sarebbe stata compromessa da tale mancanza di proporzioni. Allo
stesso modo, se dopo tanto tempo ed il tirocinio fatto sotto la legge ci avesse
fatto rimanere sulla terra mentre il momento ci chiamava a questa celeste
filosofia, non avremmo tratto nessun giovamento apprezzabile dalla sua
concessione, giacché non avremmo realizzato quello stato perfetto al quale la
concessione mirava.
XVII. Della condiscendenza divina
1. Ora questo caso è simile a quello dei piccoli uccelli. La madre, dopo
averli nutriti, li spinge fuori dal nido. Se però vede che sono ancora deboli,
che cadono e che hanno ancora bisogno di rimanere dentro il nido, li lascia lì
ancora per vari giorni non perché vi rimangano per sempre, ma perché possano
volare con tutta sicurezza una volta che le loro ali si sono ben fissate e che
essi sono divenuti abbastanza forti. Cosí anche nostro Signore fin dall’inizio
ci ha trascinati verso il cielo e ci ha indicato la strada che conduce ad esso;
non ignorava, ma sapeva bene che non eravamo capaci di volare, e voleva
mostrarci che la caduta si verificava non per suo volere, ma per la nostra
debolezza. Dopo avercelo mostrato, ci lasciò crescere per molto tempo in questo
mondo e nel matrimonio, come in un nido.
2. Ma quando, dopo un lungo intervallo di tempo, ci crebbero le ali della
virtù, ritornò, e con delicatezza e piano piano ci portò fuori da questa dimora
insegnandoci a volare più in alto Chi è ancora pigro e dorme in un sonno
profondo, ama trattenersi nel nido, rimanendo inchiodato alle cose del mondo.
Chi invece è veramente nobile ed ama la luce, abbandona il nido con grande
disinvoltura, vola verso l’alto e tocca il cielo, lasciando tutte le cose
terrene: il matrimonio, le ricchezze, i pensieri e tutto ciò che è solito
trascinarci sulla terra.
3. Non dobbiamo dunque scambiare il permesso del matrimonio, concesso
all’inizio, per un obbligo che c’impedisce di rinunziare ad esso. Il Signore
vuole che vi rinunciamo: ascolta le sue parole «Chi è in grado d’intendere,
intenda». Non meravigliarti del fatto che non abbia prescritto questo fin
dall’inizio. Neanche il medico, infatti, prescrive ai malati tutte le cure
insieme e nello stesso momento: quando sono in preda alla febbre, proibisce loro
i cibi solidi, mentre quando non ci sono più né la febbre né la debolezza
fisica da essa prodotta, sopprime i cibi sgradevoli e li riporta alla dieta
consueta. Come gli elementi dei corpi, scontrandosi tra loro e rimanendo in
eccesso o in difetto, provocano una malattia, cosí anche nel caso dell’anima la
mancanza di misura nelle passioni distrugge la sua salute. Bisogna avere una
prescrizione per queste passioni soprattutto nel momento più adatto: senza
questi due fattori, la legge da sola non basta a correggere il disordine che si
forma nell’anima. Cosí pure, neanche le medicine possono eliminare la piaga:
quello che le medicine fanno per le ferite, lo fanno le leggi per i peccati.
4. Tu non importuni il medico quando, intervenendo sulle stesse ferite, taglia,
o brucia, o spesso non fa nessuna di queste due cose, anche se di sovente non
riesce nel suo intento; quando invece si tratta di Dio che non sbaglia mai e
che regola tutto in modo degno della sua sapienza tu, pur essendo uomo,
pretendi d’immischiarti, gli chiedi ragione dei suoi comandamenti, e non ti
sottometti alla sua infinita sapienza? Non è questo il segno di un’estrema
stoltezza? Dio disse: «Crescete e moltiplicatevi». Allora il momento richiedeva
questo, giacché la natura umana era come impazzita, non poteva sopportare lo
stimolo delle passioni e non poteva rifugiarsi in un alto porto trovandosi in
mezzo a quella tempesta.
5. Che cosa avrebbe dovuto comandare Dio? Di vivere nella continenza e
nella verginità? Ma quest’ordine avrebbe prodotto una caduta ancora più grave
ed avrebbe reso più violenta la fiamma. Se ai bambini che hanno bisogno
soltanto del latte si togliesse questo nutrimento e li si costringesse a
prendere il cibo degli adulti, nulla potrebbe impedire la loro rapida morte:
tanto grande è il male dell’inopportunità. Per questo la verginità non fu
concessa all’inizio. Per meglio dire, ci apparve all’inizio prima ancora del
matrimonio, ma quest’ultimo sopraggiunse successivamente e fu ritenuto
necessario per le ragioni prima spiegate; se Adamo avesse continuato ad
obbedire, non ne avrebbe avuto bisogno. E come – mi si obietta – avrebbero
potuto nascere tante moltitudini di uomini? Ed io, giacché questa paura
continua ad agitarti tanto, ti chiedo di nuovo: «Com’è nato Adamo, com’è nata Eva,
se non c’era il mezzo del matrimonio?». «E che? – mi si chiederebbe –. Tutti
gli nomini avrebbero dovuto nascere così?». Se fossero nati così o in un altro
modo, non sono in grado di dirlo. Ciò che ora c’importa di stabilire, è che Dio
non aveva bisogno del matrimonio per moltiplicare gli uomini sulla terra.
XVIII. Non la verginità, ma il peccato riduce il genere umano
Che non la verginità, ma il peccato e gli accoppiamenti fuori luogo sono
la causa dell’estinzione del genere umano, lo mostra l’annientamento degli
uomini, delle bestie ed in una parola di tutti gli esseri che respiravano sulla
terra verificatosi ai tempi di Noè. Se i figli di Dio avessero allora resistito
a quell’innaturale desiderio ed onorato la verginità, se non avessero gettato
degli sguardi peccaminosi sulle figlie degli uomini, tale calamità non li
avrebbe colpiti. Non si creda che io intenda addossare sul matrimonio la colpa
della loro rovina; non sto dicendo questo: dico che la rovina e la distruzione
della nostra razza dipendono non dalla verginità, ma dal peccato.
XIX. Anticamente il matrimonio aveva due ragioni, ora ne ha una sola
1. Certo, il matrimonio fu concesso per la procreazione; ma ancora di più
fu concesso per spegnere il fuoco della nostra natura. Lo testimonia Paolo, là
dove dice «per evitare la fornicazione, ciascuno abbia la propria moglie»:
della procreazione non fa parola. Inoltre, egli non invita la coppia a restare
unita perché procrei molti figli; per quale ragione allora raccomanda questo? «Perché
Satana non vi tenti»: sono le sue parole. Più avanti, non dice «si sposino se
desiderano i figli» ma «si sposino, se non riescono a rimanere continenti».
All’inizio, come ho detto, il matrimonio aveva queste due funzioni;
successivamente invece, dopo che la terra, il mare e tutte le regioni abitabili
furono popolate, rimase solo un motivo per contrarlo, l’eliminazione della
sfrenatezza e della scostumatezza.
2. In effetti, coloro che anche adesso si rotolano in queste passioni, che
desiderano vivere come i porci e corrompersi nei lupanari, vengono non poco
aiutati dal matrimonio, che li allontana dall’impurità e dalla schiavitù e li
conserva nella santità e nel decoro. Ma fino a quando dovrò continuare a
combattere contro ombre? Anche voi che parlate così conoscete quanto me
l’eccellenza della verginità: tutte le cose da voi dette non sono che delle
scuse e dei pretesti che mirano a velare l’incontinenza.
XX. Anche ammettendo che coloro che disprezzano la verginità non corrano
alcun pericolo, nondimeno tale denigrazione non è esente da rischi
Ma anche se non si corresse alcun pericolo parlando così, bisognerebbe ora
porre fine alle calunnie. Chi infatti assume un atteggiamento ostile di fronte
alle cose belle, pronunziando un giudizio così depravato ed ingiusto, oltre a
danneggiare se stesso dà anche di fronte a tutti una non piccola prova della
propria malvagità. Dovreste quindi tenere a posto la lingua, se non per altre
ragioni, per lo meno per evitare di attirarvi una reputazione così cattiva:
dovete ricordare che, mentre chi ammira coloro che si distinguono nelle gare più
impegnative può trovare presso tutti comprensione se non riesce a raggiungere
gli stessi risultati, chi invece non solo non riesce, ma denigra le imprese
degne di molte corone, è giustamente odiato da tutti come un acerrimo nemico
della virtù e come più miserabile degli stolti; questi ultimi infatti non sanno
cosa fanno, né sopportano volontariamente la propria sorte. Perciò, anche se
oltraggiano i potenti, non solo non vengono puniti, ma sono oggetto di
commiserazione da parte di coloro che hanno offeso. Ma se qualcuno osasse fare
consapevolmente ciò che essi fanno senza volerlo, sarebbe giustamente
condannato con giudizio unanime come nemico della nostra natura.
XXI. Coloro che disprezzano la verginità corrono un grave pericolo
1. Come ho detto, anche se tale accusa non facesse correre dei pericoli,
bisognerebbe abbandonarla: ne ho spiegato le ragioni. In realtà però il fatto
comporta un grave pericolo: sarà punito non solo «chi siede parlando male del
proprio fratello e sollevando scandali contro il figlio di sua madre», ma anche
chi cerca di calunniare le cose che sembrano belle a Dio. Ascolta le parole di
un altro profeta, là dove parla di quest’argomento: «Guai a chi chiama buono il
cattivo ed il cattivo buono, a chi trasforma la tenebra in luce e la luce in
tenebra, il dolce nell’amaro e l’amaro nel dolce». E che cosa c’è di più dolce,
di più bello e di più risplendente della verginità? Essa emette degli splendori
più luminosi dei raggi del sole, e mentre ci allontana da tutte le cose
materiali, ci mette in condizione di guardare fissi, con occhi puri, a sole
della giustizia. Queste grida lanciava Isaia contro coloro che ospitavano in sé
tali idee distorte.
2. Ascolta che cosa dice un altro profeta su coloro che pronunziano contro
altri queste parole pestifere; egli comincia con la stessa esclamazione: «Guai
a chi versa al vicino una sporca bevanda». La parola «guai» non è un semplice
modo di dire, ma una minaccia che ci annunzia una punizione indicibile, che non
conosce perdono; nelle Scritture, tale avverbio è usato a proposito di coloro
che non possono sfuggire alla punizione imminente.
3. E un altro profeta, accusando gli Ebrei, disse da parte sua: «Avete
dato da bere il vino ai santi». Se chi fa bere il vino ai Nazirei dovrà
sopportare una punizione così grande, chi versa una bevanda sudicia nelle anime
dei semplici di quale punizione non sarà degno? Se chi elimina una piccola
parte dell’ascesi prevista dalla legge subisce un castigo inesorabile, chi
dileggia tutta quanta la santità, quale condanna subirà? «Se – dice il Signore
– qualcuno scandalizzerà uno di questi piccoli, sarà meglio per lui attaccarsi
al collo una macina da mulino e gettarsi in mare». Che cosa potranno dire
allora coloro che con queste parole scandalizzano non solo un piccolo, ma molte
persone? Se chi chiama sciocco il proprio fratello sarà condotto direttamente
al fuoco della Geenna, chi calunnia questo modo di vita uguale a quello degli
angeli quanta ira non attirerà sul suo capo?
4. Una volta Miriam parlò contro Mosè non con il tono che voi usate contro
la verginità, ma in modo molto meno grave ed in termini più moderati. Non
schernì l’uomo, né derise la virtù di quel beato, che anzi ammirava molto: si
limitò a dire che anche lei godeva dei suoi stessi privilegi. Purtuttavia,
attirò su di sé l’ira divina a tal punto, che neanche le molte preghiere del
presunto offeso valsero ad ottenere qualcosa per lei: anzi, il suo castigo andò
molto al di là di quello che Mosè stesso aveva pensato.
XXII. La morte dei fanciulli al tempo di Eliseo fu utile
1. Ma perché parlare di Miriam? Alcuni fanciulli che giocavano vicino a
Betlemme, solo per aver detto ad Eliseo «Sali, calvo», provocarono a tal punto
Dio, che questi fece piombare su di loro degli orsi proprio mentre parlavano;
erano quarantadue, e tutti furono dilaniati fino all’ultimo da quelle bestie. Né
la giovane età, né il numero, né il fatto che scherzassero valse a proteggere
quei bambini: ed era giusto. Se coloro che si sobbarcano a così grandi fatiche
dovessero essere dileggiati dai bambini e dagli uomini, quale persona più
debole accetterebbe mai di sopportare fatiche che attirano le risa e gli
scherni? Quale uomo ordinario cercherà più d’imitare la virtù, vedendo che è così
ridicola?
2. Ora la virtù è universalmente ammirata non solo da coloro che la
praticano, ma anche da coloro che, in seguito a delle cadute, se ne
allontanano; eppure, molti esitano ed indietreggiano di fronte a queste
fatiche: chi sarebbe allora più disposto ad abbracciarla subito, se vedesse che
non solo non è ammirata, ma è calunniata da tutti gli uomini? Le persone molto
forti, che si sono già trasferite in cielo, non hanno bisogno della
consolazione della gente ordinaria, perché a consolarle basta la lode di Dio.
Chi invece è più debole e solo da poco si fa guidare m tale pratica, riceve un
non piccolo aiuto anche dalla spinta prodotta dall’opinione del volgo: solo m
seguito, quando sarà completamente educato, potrà mettersi piano piano in
condizione di non aver più bisogno di tale aiuto.
3. Questi eventi si verificano non solo per costoro, ma anche per la
salvezza degli schernitori, i quali procederebbero oltre nella loro malvagità,
se vedessero impuniti i loro misfatti precedenti. Ma mentre parlavo, mi sono
tornati in mente certi episodi della storia di Elia. La sorte che gli orsi
fecero subire a quei fanciulli a causa di Eliseo, toccò anche, a causa del suo
maestro, a cinquantadue uomini ed ai loro capi, quando il fuoco si accese in
cielo. Allorché essi, con un fare molto ironico, vennero a chiamare il giusto
invitandolo a scendere tra loro, in sua vece scese un fuoco, che li divorò
tutti cosi come fecero quelle bestie.
4. Voi tutti, o nemici della verginità, riflettete dunque su questo e
mettete sulla vostra bocca una porta ed una sbarra, per non dover dire il
giorno del giudizio, vedendo rifulgere in quel luogo le persone vergini: «Questi
sono coloro che deridevamo ed a cui lanciavamo oltraggi; e noi stolti
ritenevamo pazza la loro vita, ed ignominiosa la loro morte. Come possono
essere stati annoverati tra i figli di Dio ed avere la sorte dei santi? Ci
siamo dunque allontanati dalla strada della verità, e la luce della giustizia
non ha brillato per noi». Ma a che cosa gioveranno queste parole, se il
pentimento non sarà più efficace in quel frangente?
XXIII. Come mai coloro che commettono gli stessi peccati non vengono
puniti allo stesso modo
Ma forse qualcuno di voi chiederà: «Nessuno dunque dopo quei tempi insultò
i santi?» Molti, ed in molti punti della terra, l’hanno fatto. «Come mai allora
non sono stati puniti allo stesso modo?». Sappiamo che molti di loro lo sono
stati. Se poi alcuni sono sfuggiti al castigo, non sfuggiranno ad esso per
sempre. Secondo il beato Paolo «i peccati di alcuni sono evidenti e portano al
giudizio, mentre per altri si rivelano successivamente». Come i legislatori
mettono per iscritto le pene dei trasgressori, così anche nostro Signore Gesù
Cristo, quando punisce uno o due peccatori e scrive per così dire i loro castighi
su di una colonna di bronzo, si serve della loro sorte per parlare a tutti;
Egli dice che coloro che osano commettere gli stessi peccati di chi è stato
punito, anche se per il momento non vengono puniti, in futuro subiranno un
castigo più severo.
XXIV. Coloro che peccano e non sono puniti non devono rassicurarsi, ma
piuttosto temere
1. Di conseguenza, se non soffriamo alcun male pur avendo peccato oltre
misura, non dobbiamo rassicurarci, ma piuttosto temere. Se infatti qui non
siamo giudicati da Dio, lì saremo condannati assieme al mondo. Anche in questo
caso, le parole non sono mie, ma di Cristo che parla in Paolo. Parlando a
coloro che prendono i sacramenti senza esserne degni, egli dice: «Per questo
tra voi ce ne sono molti che sono deboli e malati, mentre un buon numero dorme.
Se ci giudicassimo, non saremmo giudicati; ora invece, se siamo giudicati,
veniamo educati dal Signore per non essere condannati assieme al mondo». Vi
sono alcuni che hanno bisogno soltanto di una condanna su questa terra, quando
nei loro peccati non oltrepassano una certa misura e quando, dopo essere stati
puniti, non corrono più verso di essi, imitando il cane che si volge verso ciò
che ha vomitato; vi sono poi altri che per l’enormità delle loro colpe sono
puniti sia qui che lì; altri, infine, saranno puniti solo lì per avere commesso
le colpe più gravi, non essendo stati ritenuti degni di essere sferzati assieme
agli uomini. «Non saranno sferzati assieme agli uomini» – è detto –, in quanto
sono destinati ad essere puniti con i demoni. «Andate via da me – dice il
Signore – verso la tenebra eterna, preparata per il diavolo ed i suoi seguaci».
2. Molti sono riusciti ad ottenere il sacerdozio pagando, senza essere
rimproverati da nessuno e senza ascoltare le parole che Simone udì a suo tempo
da Pietro. Non per questo però sfuggono al castigo: ne subiranno uno molto
peggiore di quello che avrebbero dovuto subire qui, giacché neanche l’esempio è
valso a renderli più saggi. Molti hanno osato fare quello che fece Core; non
hanno subito la sua sorte, ma soffriranno in seguito una pena più grave. Molti
che hanno imitato l’empietà del Faraone non sono annegati come lui, ma sono
attesi dall’oceano della Geenna. Neanche coloro che chiamano sciocchi i propri
fratelli sono stati puniti, ma il castigo è riservato per loro nell’al di là.
3. Non pensate dunque che le minacce di Dio siano solo parole. Egli ha
dato esecuzione ad alcune di esse come nel caso di Saffira, di suo marito, di
Carmi, di Aaron e di molti altri, perché chi non crede alle sue parole,
convinto dall’evidenza dei fatti, in futuro non s’illuda più di sfuggire alla
punizione ed impari che la bontà di Dio consiste non nel non punire affatto chi
persevera nei suoi peccati, ma nel concedere una proroga ai peccatori.
4. Si potrebbe parlare anche più a lungo, per dare un’idea di tutto il
fuoco che si preparano coloro che disprezzano la bellezza della verginità. Ma
queste parole sono sufficienti ai saggi, mentre neanche un discorso più lungo
del presente potrebbe allontanare gl’incorreggibili ed i pazzi dalla loro
mania. Chiudiamo quindi questa parte, e rivolgiamo il nostro discorso ai saggi,
ritornando al beato Paolo. «Riguardo a ciò su cui mi avete scritto – dice – è
bene per l’uomo non toccare la donna». Si vergognino ora entrambe le categorie
di persone, sia quelli che denigrano il matrimonio, sia quelli che lo esaltano
oltre il dovuto. Ad entrambi il beato Paolo chiude la bocca sia con queste
parole che con quelle che seguono.
XXV. Il matrimonio è necessario ai deboli
Il matrimonio è una bella cosa, perché conserva l’uomo nella temperanza e
gl’impedisce di rotolare nella fornicazione e di morirvi. Non va quindi
calunniato. È in effetti di grande utilità, giacché non consente alle membra di
Cristo di diventare membra di una prostituta, e vieta che il sacro tempio venga
profanato ed insozzato. È bello perché sostiene e rimette in piedi chi sta per
cadere. Ma di quale utilità può essere per colui che sta già in piedi e che non
ha bisogno del suo aiuto? In tal caso, esso non è né utile né necessario, ma è
solo d’impedimento alla virtù, non solo perché le frappone molti ostacoli, ma
anche perché la priva della maggior parte degli elogi.
XXVI. Chi si sposa pur essendo in grado di restare vergine, reca un
gravissimo torto a se stesso
Chi ricopre di armi un uomo che può combattere nudo e vincere, non solo
non gli giova, ma gli fa il più grande torto, privandolo dell’ammirazione e
delle più grandi corone: impedisce alla sua forza di rivelarsi in modo
completo, e fa perdere al suo trofeo molta fama. Nel caso del matrimonio, il
danno è ancora più grave: si priva l’uomo non solo della grande considerazione
della gente ordinaria, ma anche dei premi riservati alla vergine. Per questo
vien detto: «È bene per l’uomo non toccare donna». Perché allora permetti di
toccarla? «A causa della fornicazione, ciascuno abbia la propria moglie». «Esito
– dice l’apostolo – a condurti fino all’altezza della verginità, nel timore che
tu possa precipitare nel baratro della fornicazione. Le tue ali non sono ancora
abbastanza leggere, perché io possa sollevarti fino a quella vetta». Eppure,
essi hanno deciso di cimentarsi e si sono slanciati verso la bellezza della
verginità. Perché allora hai paura e tremi, o beato Paolo? «Perché –
risponderebbe forse – mostrano tanta voglia in quanto ignorano di che cosa si
tratta; io invece, avendo esperienza e conoscendo già questa battaglia, esito a
consigliarla agli altri».
XXVII. La verginità è un gran bene e dispensa grandi beni
1. Conosco le difficoltà di quest’impresa, l’asprezza di questo
combattimento, la pesantezza di questa guerra. Bisogna avere un’anima
combattiva, violenta, disperatamente decisa nella sua lotta contro i desideri,
giacché si deve camminare sui carboni senza bruciarsi e sulle spade senza farsi
colpire. La forza del desiderio è infatti pari a quella del fuoco e del ferro;
e l’anima, se non impara a non voltarsi verso questi dolori, ben presto
perisce. Ci occorrono un pensiero di diamante, un occhio che non si addormenta
mai, molta pazienza, delle mura robuste, [dei muri esterni] e delle sbarre,
delle guardie vigili e prodi, e prima di ogni altra cosa, l’intervento
superiore: «Se il Signore non custodisce la città, invano vegliano i suoi
custodi».
2. Come potremo dunque far giungere a noi quest’aiuto? L’otterremo solo
dopo che avremo dato tutto il nostro contributo: mi riferisco ai pensieri sani,
alla forte intensità dei digiuni e delle veglie, alla scrupolosa osservanza
della legge, al rispetto dei comandamenti, e soprattutto alla sfiducia in noi
stessi. Anche se riusciamo a realizzare grandi cose, dobbiamo infatti dire
sempre: «Se non è il Signore a costruire la casa, invano hanno lavorato i suoi
costruttori. «Noi non lottiamo contro il sangue e la carne, ma contro le
dominazioni, contro le potestà, contro i capi delle tenebre di questo mondo,
contro gli spiriti maligni che si trovano negli spazi celesti». Restando armati
di giorno e di notte, dobbiamo tener desti i nostri pensieri e mettere paura ai
desideri impudenti. Basta che i pensieri si rilassino un po’, che compare il
diavolo con in mano il fuoco, che scaglia per incendiare il tempio di Dio.
Dobbiamo dunque essere fortificati da ogni parte. La nostra è una battaglia
contro le necessità naturali; cerchiamo d’imitare il modo di vita degli angeli
e di correre assieme alle potenze incorporee. Noi, terra e cenere, facciamo di
tutto per renderci uguali agli esseri che vivono in cielo: la corruzione vuole
gareggiare con l’incorruttibilità.
3. Dimmi: qualcuno oserà ancora paragonare il piacere del matrimonio a
tale stato? Come non sarebbe oltremodo sciocco? Paolo, sapendo bene tutto
questo, disse: «Ognuno abbia la propria moglie». Per questo si mostrava
ritroso, per questo non osava parlare loro subito della verginità, ma si
soffermava a discorrere sul matrimonio, nell’intento di distaccarli da esso a
poco a poco; le poche parole che diceva sulla continenza le mescolava ai suoi
lunghi discorsi sul matrimonio, in modo che l’udito non fosse colpito dalla
severità dell’esortazione. Chi infatti intreccia in tutto il suo discorso
argomenti troppo severi si rende molesto all’ascoltatore, e costringe spesso
alla ribellione l’anima che non sopporta il peso di ciò che vien detto. Chi
invece lo varia, e vi mescola più argomenti piacevoli che argomenti spiacevoli,
evita di renderlo pesante, e facendo riposare l’ascoltatore riesce meglio a
persuaderlo e ad attirarlo, come fece appunto Paolo.
4. Subito dopo aver detto «È bene per l’uomo non toccare la donna», passò
al matrimonio con le parole: «Ognuno abbia la propria moglie». Benedisse la
verginità e la mise da parte limitandosi a dire: «È bene per l’uomo non toccare
la donna». Per quanto riguarda invece il matrimonio, dà dei consigli e degli
ordini e ne spiega il motivo: «A causa della fornicazione»; sembra così voler
giustificare il permesso che dà di sposarsi. In verità egli, parlando del
matrimonio, fa nascostamente l’elogio della continenza: non lo svela
apertamente, ma lo lascia alla coscienza degli ascoltatori. Chi infatti si
rende conto che Paolo l’esorta al matrimonio non perché lo consideri il sommo
della virtù ma perché gli rimprovera una sensualità troppo forte, che non può
essere scacciata senza di esso, pieno di rossore e di vergogna cerca di
abbracciare subito la verginità e di allontanare da sé tale reputazione.
XXVIII. Ciò che viene detto sul matrimonio è un’esortazione alla verginità
1. Perché Paolo dice quindi «Il marito dia alla moglie l’affetto dovuto, e
similmente si comporti la moglie con il marito»? Per spiegare queste parole e
renderle più chiare, aggiunge: «La moglie non è padrona del proprio corpo, ma
solo il marito lo è; similmente, il marito non è padrone del proprio corpo, ma
solo la moglie lo è». Queste parole sembrano dette in favore del matrimonio. In
realtà però Paolo riveste un amo con l’esca consueta, e lo getta nelle orecchie
dei suoi discepoli nell’intento di distoglierli dal matrimonio parlando di
esso. Chi infatti sente che dopo il matrimonio non sarà più padrone di sé ma
dipenderà dalla volontà della moglie, cerca di liberarsi subito da questa
schiavitù così amara, o piuttosto non vuole neanche cominciare a sottomettersi
a questo giogo, perché una volta che vi si è sottomesso deve restare schiavo
finché lo vuole la moglie.
2. Che io non faccio delle semplici congetture sul pensiero di Paolo lo si
può capire facilmente, se si pensa ai discepoli del Signore: costoro non
ritennero il matrimonio una cosa pesante e molesta finché non si avvidero che
il Signore voleva rinserrarli nello stesso obbligo in cui Paolo avrebbe poi
rinchiuso i Corinzi. Le frasi «Chi ripudia la propria moglie quando non ricorre
il motivo della fornicazione la spinge all’adulterio» e «il marito non è
padrone del proprio corpo» esprimono lo stesso pensiero, anche se con parole
diverse.
3. Se si esaminano più attentamente le parole di Paolo, si vede che esse
accrescono la tirannide del matrimonio e ne rendono più pesante la schiavitù.
Se infatti il Signore non consente al marito di scacciare la propria moglie
dalla sua casa, Paolo lo priva perfino della facoltà di disporre del proprio
corpo, dando tutto il potere alla moglie e mettendolo al di sotto di un servo
comprato. Quest’ultimo può spesso ottenere la completa libertà se, divenuto
ricco, riesce a pagare il prezzo al padrone. Il marito invece, anche se ha la
moglie più terribile, si vede costretto a fare buon viso alla sua schiavitù,
non potendo trovare il modo di liberarsi da tale dominio o di sfuggirne.
XXIX. Le parole «Non negatevi l’uno all’altro» sono un’esortazione alla
verginità
1. Paolo, dopo aver detto «La moglie non è padrona del proprio corpo»,
aggiunge: «Non negatevi l’uno all’altro se non quando siete d’accordo, nel
momento più opportuno, in modo che possiate attendere alla preghiera ed al
digiuno; dopo di che, ritornate a stare insieme». Penso ora che molti di coloro
che hanno abbracciato la verginità arrossiscano e si vergognino della grande
indulgenza di Paolo. Ma non abbiate timore, e non siate sciocchi. Queste parole
sembrano essere state dette da chi vuole compiacere gli sposati, ma chi le
esamina attentamente si accorge che sono animate dallo stesso pensiero delle
frasi precedenti. Se infatti le si ascoltassero staccandole dalla questione che
precede, sembrerebbero degne più di una pronuba che di un apostolo, ma una
volta spiegato il significato di tutto il contesto, si vedrebbe che anche
quest’esortazione è conforme alla dignità dell’apostolo.
Perché Paolo si dilunga su questo discorso? Una volta indicato il suo
pensiero in modo più dignitoso con le parole precedenti, non avrebbe potuto
contentarsi di limitare ad esse la sua esortazione? Che cosa dice in più la
frase «Non negatevi l’uno all’altro se non quando siete d’accordo, nel momento
più opportuno» delle altre «Il marito dia alla moglie l’affetto dovuto» e «il
marito non è padrone del proprio corpo»? Certo, non dice nulla di più; ma qui
l’apostolo, usando più parole, ha reso più chiaro ciò che prima aveva detto più
brevemente ed in modo più oscuro.
2. Agendo così, egli ha voluto imitare Samuele, il santo di Dio. Come
questi spiegò al popolo con la maggiore esattezza possibile le leggi di chi
regna non perché accettasse un re ma perché lo rifiutasse (il suo discorso
sembrava un insegnamento, ma in realtà mirava a distogliere il popolo da un
desiderio inopportuno), così anche Paolo dibatte con maggiore continuità e
chiarezza la questione della tirannia del matrimonio nell’intento di
distogliere da esso gli ascoltatori con le sue parole. Dopo aver detto «la
moglie non è padrona del proprio corpo», aggiunge «Non negatevi l’uno all’altro
se non quando siete d’accordo, in modo che possiate attendere al digiuno ed
alle preghiere». Vedi come conduce alla pratica della continenza le persone
sposate, senza destare sospetti e senza rendersi molesto? All’inizio si limitò
a lodare la continenza, dicendo: «È bene per l’uomo non toccare la donna». Ora,
invece, aggiunge un’esortazione: «Non negatevi l’uno all’altro, se non quando
siete d’accordo». Tale discorso è più gentile, e rivela il pensiero del
maestro, che non accampa pretese con veemenza, soprattutto quando il mettere in
pratica i suoi consigli richiede una grande bontà. Egli non cerca di consolare
l’ascoltatore soltanto così: trattato con poche parole l’aspetto più austero,
prima ancora che l’ascoltatore si addolori, passa all’aspetto più piacevole e
vi si sofferma più a lungo.
XXX. Come mai Paolo, pur ritenendo il matrimonio una cosa pregevole,
raccomanda a chi digiuna di astenersi dai rapporti coniugali
1. Vale la pena di esaminare come mai, «se il matrimonio è una cosa
pregevole e se il letto coniugale è esente da contaminazione», Paolo non
consente il rapporto coniugale nel periodo del digiuno e della preghiera.
Sarebbe del tutto assurdo che mentre gli Ebrei – nei quali tutti i bisogni
corporei sono profondamente impressi, e che hanno il permesso di avere due
mogli, di ripudiarle e di sposarne altre al loro posto – si preoccupano della
continenza fino al punto di astenersi dal rapporto legittimo non per un giorno
o due soltanto ma per più giorni quando devono ascoltare la parola di Dio, noi
invece – che godiamo di una grazia così grande, che abbiamo ricevuto lo
spirito, che siamo morti e siamo stati sepolti assieme a Cristo, che siamo
stati ritenuti degni di essere figli adottivi di Dio, che siamo stati elevati
ad una dignità così grande e che abbiamo goduto di tanti e così grandi beni –
non dobbiamo avere neppure la stessa preoccupazione di quei piccoli.
2. Se qualcuno poi insistesse a ricercare il motivo per cui Mosè proibì
agli Ebrei questi rapporti, direi che, anche se il matrimonio è una cosa pregevole,
può soltanto giungere a non contaminare chi ne fa uso; mettere in mostra i
santi, rientra però non nelle sue possibilità, ma in quelle della verginità.
Mosè e Paolo non sono stati i soli a dare tali precetti: ascolta le parole di
Ioel: «Santificate il digiuno, annunziate la guarigione, radunate l’assemblea,
fate venire gli anziani». Ma cerchi forse il passo in cui ha ordinato di
tenersi lontani dalle mogli? «Lo sposo esca dal suo letto e la sposa esca dalla
sua camera nuziale». Quest’ordine va al di là di quello di Mosè. Se lo sposo e
la sposa, in cui il desiderio è al culmine, in cui la giovinezza è piena di
vigore, in cui il desiderio è indomabile, non devono avere rapporti nel periodo
del digiuno e della preghiera, non devono comportarsi così a maggior ragione
gli altri, che non sono sottoposti ad una costrizione così grave? Chi vuol
pregare e digiunare nel modo giusto deve eliminare ogni desiderio terreno, ogni
pensiero ed ogni motivo di dispersione, e presentarsi a Dio dopo essersi ben
raccolto in sé sotto ogni rispetto. Il digiuno è bello perché recide le
preoccupazioni dell’anima, perché allontana la pigrizia che circonda la mente,
perché fa sì che il pensiero si raccolga tutto in se stesso. Alludendo a tutto
questo, Paolo vieta il rapporto e fa uso di parole ben appropriate. Non dice
infatti «Perché non veniate contaminati», ma «perché possiate attendere al
digiuno ed alla preghiera», come se il rapporto con la propria moglie fosse
causa non d’impurità, ma di una perdita di tempo.
XXXI. Paolo era obbligato a vietare i rapporti a coloro che intendevano
attendere alla preghiera
Se anche ora, nonostante la grande sicurezza di cui godiamo, il diavolo
cerca di ostacolarci nel momento della preghiera, ammesso che trovi un’arsura
dissoluta e rammollita dalla passione per una donna, che cosa non è capace di
fare, quando svia in un senso o nell’altro gli occhi del pensiero? Per non
metterci in condizione di subire questa sorte e di offendere Dio con una
preghiera così inutile proprio quando cerchiamo di rendercelo propizio, egli ci
ordina di astenerci dai rapporti.
XXXII. Quando preghiamo con negligenza non solo non ci propiziamo Dio, ma
l’irritiamo
1. Se coloro che avvicinano i re – ma perché parlare dei re? basta pensare
ai più bassi magistrati; se gli schiavi che avvicinano i padroni o perché hanno
subito un torto da altri, o perché hanno bisogno di un favore, o perché cercano
di mitigare l’ira che si è levata contro di loro, incontrano questi potenti
solo dopo avere concentrato su di loro tutti i loro sguardi ed i loro pensieri,
ed alla minima negligenza non solo non ottengono ciò di cui hanno bisogno, ma
ricevono in aggiunta una punizione e vengono cacciati via; se coloro che
cercano di fermare l’ira degli uomini stanno così attenti, quali pene non dobbiamo
soffrire noi miseri, quando ci accostiamo con tanta negligenza a Dio, il
padrone universale, e ci rendiamo meritevoli di una collera tanto più grande? Né
il servo né il suddito irritano tanto il padrone o il re quanto noi irritiamo
Dio ogni giorno.
2. Alludendo a questo, Cristo chiama «cento denari» i peccati verso il
prossimo e «diecimila talenti» i peccati verso Dio. Poiché dunque ci accostiamo
alla preghiera per spegnere la sua ira e per riconciliarci con colui che
combattiamo ogni giorno, a ragione l’apostolo cerca di tenerci lontani dal
piacere, come se dicesse: «O miei diletti, è dell’anima che si parla; corriamo
i più gravi pericoli: dobbiamo tremare, avere paura e mostrarci contriti; ci
accostiamo ad un padrone terribile, che abbiamo molto offeso e che ha da
muoverci gravi accuse per gravi mancanze. Non è il momento delle carezze e dei
piaceri, ma delle lacrime, degli amari lamenti, delle prostrazioni, delle
confessioni scrupolose, delle suppliche ferventi, delle preghiere assidue. Sarà
già una buona cosa se potremo mitigare la sua ira accostandoci a lui con tanto
riguardo, non perché nostro Signore sia insensibile o crudele – al contrario, è
assai mite e pieno di amore per gli uomini – ma perché l’enormità dei nostri
peccati non permette neanche a chi è così buono, ben disposto e misericordioso
di perdonarci tanto presto. Per questo egli dice: «In modo che possiate
attendere al digiuno ed alla preghiera». Che cosa c’è di più amaro di questa
schiavitù? «Vuoi – ci chiede – progredire verso la virtù, volare verso il
cielo, togliere la sporcizia dalla tua anima insistendo senza interruzione nei
digiuni e nelle preghiere?». Ma se la moglie non vuole acconsentire a questo
tuo progetto, devi rimanere schiavo della sua sensualità. Per questo all’inizio
l’apostolo disse: «È bene per l’uomo non toccare la donna»; e per questo i
discepoli dissero al Signore: «Se questa è la condizione dell’uomo quando sta
con la moglie, non conviene sposarsi». Pronunciarono tali parole, perché
pensarono agl’inconvenienti che necessariamente si verificano nell’uno o
nell’altro caso, e perché furono messi in imbarazzo da tali riflessioni.
XXXIII. Quando si parla due volte dello stesso argomento si imita Cristo
Anche Paolo tratta continuamente lo stesso tema per indurre i Corinzi a
fare questa riflessione. «Ognuno abbia la propria moglie, il marito dia alla
moglie l’affetto dovuto, la moglie non è padrona del proprio corpo, non
negatevi l’uno all’altro, tornate a stare insieme». Questi beati ascoltatori
non rimasero colpiti dalle sue prime parole; solo dopo averle sentite una
seconda volta, si resero conto dell’obbligo contenuto in quel comandamento.
Anche Cristo, quando si sedette sul monte, parlò di questo e tornò a parlarne
dopo avere toccato molti altri argomenti; in tal modo, poté condurre i suoi
ascoltatori all’amore per la continenza. Le stesse cose ripetute continuamente
hanno maggiore efficacia. Il discepolo quindi, imitando anche in questo il
maestro, parla continuamente delle stesse cose, e non dà il permesso di sposarsi
senza dire altro, ma ne spiega il motivo: «a causa della fornicazione, delle
tentazioni sataniche e dell’incontinenza»; così, senza destare sospetti, mentre
parla del matrimonio tesse l’elogio della verginità.
XXXIV. La verginità è ammirevole, e degna di molte corone
1. Se Paolo ha paura di separare per molto tempo coloro che vivono nel
matrimonio, nel timore che il diavolo trovi il modo d’introdursi, di quante
corone non sono degne le donne che non hanno bisogno di questa consolazione
neanche all’inizio, e che rimangono invitte fino alla fine? Eppure il diavolo
non ricorre ad uguali mezzi contro queste due categorie di persone. A mio
avviso, egli non molesta le persone sposate, sapendo bene che hanno a portata
di mano un rifugio: se si accorgono di essere oggetto di un attacco più forte,
quest’ultime possono subito rifugiarsi nel porto, giacché il beato Paolo non
permette loro di spingersi troppo lontano nella navigazione, ma le esorta a
tornare indietro se sono stanche, invitandole a stare di nuovo insieme. La
vergine è invece costretta a restare sempre in alto mare, e a navigare su di un
oceano senza porti; anche se si leva una tempesta più violenta, non può fare
ondeggiare la sua nave e concedersi un riposo.
2. I pirati non attaccano i naviganti quando si trovano vicini ad una città,
ad una rada o ad un porto: sarebbe un rischio vano. Se invece riescono ad
intercettare la nave in alto mare, incoraggiati nella loro audacia dalla
mancanza di aiuto, tutto muovono e sconvolgono, e non desistono, finché non fanno
affondare i naviganti o non subiscono essi stessi questa sorte. Allo stesso
modo il terribile tentatore suscita contro la vergine una grande tempesta, un
violento uragano ed enormi, irresistibili ondate, tutto sconvolgendo, in modo
da sommergere la nave con la sua violenza ed impetuosità. Ha sentito dire
infatti che la vergine non può «tornare a stare insieme» ma è obbligata a
lottare e a combattere sempre contro gli spiriti del male, finché non approda
nel porto veramente tranquillo.
3. Paolo chiude la vergine fuori delle mura come se fosse un soldato
valoroso, e non permette che le si aprano le porte, anche se il nemico si
accanisce molto contro di lei, anche se diventa più violento perché
l’avversario non può godere di nessuna tregua. Non solo il diavolo, ma anche il
pungolo del desiderio molesta maggiormente i non sposati. E questo è chiaro a
tutti. Noi non diveniamo facilmente preda del desiderio di quelle cose di cui
possiamo godere, giacché la sicurezza consente all’anima di starsene
tranquilla. Ce lo testimonia un proverbio, popolare ma pur sempre vero: ciò di
cui si dispone – esso dice – non suscita violenti desideri. Se però ci viene
vietato l’uso di ciò di cui eravamo padroni da tempo, si produce l’effetto
contrario, e ciò che prima disprezzavamo, quando sfugge al nostro potere
risveglia un desiderio più violento.
4. Questa è la prima ragione per cui gli sposati godono di una più grande
serenità; la seconda è dovuta al fatto che la fiamma, anche se cerca di
alzarsi, è subito soffocata dall’unione che sopravviene. La vergine invece, non
sapendo come spegnere il fuoco, lo vede allungarsi ed alzarsi, e non riuscendo
ad estinguerlo si preoccupa unicamente di combatterlo per non lasciarsi
bruciare. C’è forse qualcosa di più paradossale del fatto che essa sopporti
dentro di sé tutto il peso del fuoco e non si bruci? O del fatto che covi la
fiamma nelle parti più riposte della sua anima e che conservi il pensiero
intatto? Nessuno le permette di liberarsi di questi carboni gettandoli fuori, e
lei si vede costretta a sopportare nella sua anima ciò che l’autore dei
proverbi considera impossibile se riferito ai colpi. Che cosa dice costui? «Potrà
qualcuno camminare sui carboni ardenti senza bruciarsi i piedi?». Ma guarda: la
vergine vi cammina, e sopporta il tormento. «Qualcuno metterà il fuoco nel
seno, e non si brucerà le vesti»?. La vergine ha un fuoco rabbioso e
rimbombante non nelle vesti ma dentro di sé, eppure sopporta la fiamma e la
ripara.
5. Dimmi, qualcuno oserà ancora paragonare il matrimonio alla verginità?
Oserà ancora guardarlo in faccia? Non lo permette il beato Paolo, che ha posto
una grande distanza tra le due cose. «La donna vergine – dice – si preoccupa
delle cose del Signore, quella sposata delle cose del mondo». Ascolta come
rimprovera le persone sposate, dopo averle ricongiunte ed avere concesso loro
questo favore: «Tornate a stare insieme – dice loro – perché Satana non vi
tenti». Allo scopo di dimostrare che tutto non dipende tanto dalla tentazione quanto
dalla nostra debolezza, egli adduce il motivo principale con le parole: «A
causa della vostra intemperanza».
6. Chi non arrossirebbe, sentendo queste parole? chi non cercherebbe di
sfuggire alla taccia d’intemperanza? Quest’esortazione non riguarda tutti, ma
quelli che cadono troppo in basso. «Se sei così schiavo dei piaceri – dice
Paolo –, se sei così molle da disperderti sempre nell’accoppiamento e da
desiderarlo, sta’ pure con tua moglie». Dando questo permesso egli non approva
né loda, ma deride e condanna. Se non avesse voluto colpire veramente l’anima
delle persone libidinose, non avrebbe usato la parola «intemperanza», che è così
espressiva e così pregna di rimprovero. Perché non ha detto «A causa della
vostra debolezza»? Perché con quest’ultima frase avrebbe mostrato piuttosto di
perdonare, mentre usando parola «intemperanza» ha voluto far rilevare l’enormità
del loro rilassamento. È dunque proprio dell’intemperanza il non potersi tenere
lontani dalla fornicazione, se non si sta sempre attaccati alla moglie e non si
gode dell’unione coniugale.
7. Che cosa potrebbero dire ora coloro che ritengono superflua la verginità?
Mentre quest’ultima merita lodi tanto più grandi quanto maggiore è il suo
impegno, il matrimonio invece, proprio quando lo si usa a sazietà, viene a
perdere ogni merito. «Quello che io dico – afferma Paolo – è una concessione,
non un ordine». Dove c’è la concessione, non c’è posto per la lode. Ma anche
quando parla delle vergini, egli dice: «Non ho un ordine del Signore, ma
esprimo un parere». Ha forse voluto respingere la verginità? Niente affatto.
Nel caso della vergine esprime un parere, nell’altro caso invece fa una
concessione. In nessuno dei due casi dà un ordine, ma non per lo stesso motivo:
nel caso del matrimonio, onde evitare che qualcuno che voglia liberarsi
dell’intemperanza riceva un divieto perché vincolato dall’obbligo di un
comandamento; nel caso delle vergini, per evitare che qualcuno, non riuscendo
ad elevarsi fino alla verginità, venga condannato come trasgressore di un
precetto. «Non comando di restare vergini – egli dice – perché temo la
difficoltà dell’impresa. Non comando di avere continui rapporti con la moglie,
perché non voglio legittimare l’intemperanza. Ho detto «state insieme» perché
voglio impedirvi di precipitare, non perché voglio ostacolare il desiderio di
salire in alto».
8. Paolo non vuole dunque in primo luogo che si abbiano sempre rapporti
con la moglie: è stata l’intemperanza dei pigri a prescrivere questo. Se vuoi
sapere qual è il desiderio di Paolo, ascolta: «Voglio – egli dice – che tutti
siano come me», vale a dire continenti. Se vuoi che tutti siano continenti,
vuoi che nessuno si sposi. «Non per questo però vieto il matrimonio a chi lo
desidera né accuso, ma faccio voti e desidero che tutti siano come me; d’altra
parte, permetto il matrimonio a causa della fornicazione. Per questo all’inizio
dissi: «è bene per l’uomo non toccare la donna».
XXXV. Era necessario che Paolo s’indicasse come esempio di continenza
1. Perché mai Paolo parla qui di sé dicendo «voglio che tutti gli uomini
siano come me»? Non certo per esaltarsi: egli era colui che, pur essendosi
distinto tra gli apostoli nella fatica della predicazione, si riteneva indegno
perfino di essere chiamato apostolo. Dopo avere detto infatti «Sono il più
piccolo degli apostoli», nel timore di avere pronunziato una parola che
oltrepassava i suoi meriti, si riprese subito aggiungendo: «Non sono degno di
essere chiamato apostolo». Come mai allora qui si aggiunge come esempio alla
sua esortazione? Non l’ha fatto senza motivo o a caso, ma perché sapeva bene
che i discepoli si lasciano condurre all’imitazione delle cose belle
soprattutto quando ricevono l’esempio dai maestri. Come colui che è saggio solo
nelle parole e non nelle opere non è di grande aiuto all’ascoltatore, così
colui che è in grado di mostrare di avere messo in pratica i consigli che dà
riesce a trascinare meglio l’uditorio. Inoltre, Paolo si mostra libero
dall’invidia e dall’orgoglio: vuole che i suoi discepoli siamo partecipi di
questo privilegio, non cerca di avere nulla in più di loro e desidera che essi
l’eguaglino in tutto.
2. Devo ricordare anche il terzo motivo. Di che cosa si tratta? La cosa
sembrava difficile, e non alla portata dei più. Nell’intento di mostrare che
era invece molto facile, egli cita come esempio colui che l’aveva realizzata,
perché i discepoli non credessero che costasse molta fatica e perché, guardando
la loro guida, potessero anch’essi incamminarsi fiduciosi per la stessa strada.
Così si comporta anche in un’altra occasione. Parlando ai Galati, e cercando di
dissipare la paura che avevano della legge, e che li faceva ricadere nelle
vecchie usanze e li costringeva ad osservare molti di quei precetti, che cosa
dice? «Diventate come me, perché anch’io sono come voi». Ciò che vuol dire è
questo: «Non potete affermare che io, convertitomi ora dal paganesimo senza
conoscere la paura prodotta dalla trasgressione della legge, vi voglio
insegnare impunemente tutte queste cose. Anch’io sono stato una volta asservito
a questa schiavitù come voi: mi sottomettevo alle prescrizioni della legge, ne
osservavo i precetti, ma una volta illuminato dalla grazia ho trasferito tutto
me stesso a quest’ultima, abbandonando la prima. Questo non rappresenta più una
trasgressione «se ci sottomettiamo ad un altro uomo»: di conseguenza, nessuno
di voi può dire che io agisco in un modo ed esorto in un altro, né che, badando
alla mia sicurezza, vi caccio in un pericolo. Se la cosa fosse stata
pericolosa, non avrei tradito me stesso trascurando la mia salvezza». Come in
quest’altro caso dissipò la loro paura citandosi come esempio, così anche nel
nostro, mettendosi in mezzo, intende eliminare la loro angoscia.
XXXVI. L’apostolo chiama «grazia» la verginità perché vuole essere umile
1. «Ma ciascuno — dice Paolo — ha la propria grazia, chi in un modo, chi
in un altro. Osserva come i tratti caratteristici dell’umiltà dell’apostolo non
svaniscano mai, ma risplendano sempre in modo distinto. Egli chiama grazia di
Dio la propria azione virtuosa, ed attribuisce al Signore tutto il frutto delle
sue grandi fatiche. Ma perché ci si dovrebbe meravigliare se si comporta così a
proposito della continenza, quando assume lo stesso atteggiamento nei riguardi
della predicazione, per la quale sopportò infinite fatiche, tormenti continui,
sofferenze indicibili, ed andò incontro a quotidiani pericoli di morte? Che
cosa dice in proposito? «Mi sono affaticato più di tutti loro: non io però, ma
la grazia di Dio che è in me». Non attribuisce una parte del merito a sé ed
un’altra a Dio, ma fa risalire tutto a Dio. È proprio di un buon servo credere
che nulla gli appartenga e che tutto sia del padrone [e ritenere che nulla sia
suo ma tutto del Signore].
2. Paolo si comporta così anche altrove. Dopo avere detto «Riceviamo dei
favori differenti, secondo la grazia che ci è stata concessa «, un poco più
avanti annovera tra questi favori le cariche, le opere di misericordia e le
elargizioni. A tutti è chiaro che queste cose sono azioni virtuose, e non
favori. Ho voluto ricordarlo, perché quando gli senti dire «Ognuno ha la
propria grazia» tu non ti scoraggi e non dica a te stesso: «La cosa non
richiede il mio impegno, se Paolo l’ha chiamata grazia». Egli parla così per
umiltà, non perché voglia annoverare la temperanza tra le grazie. Non era
infatti sua intenzione contraddire in tal modo se stesso e Cristo; Cristo aveva
detto: «Ci sono degli eunuchi che si sono resi eunuchi per il regno dei cieli»,
ed aveva aggiunto: «Chi è in grado d’intendere, intenda»; ed egli stesso aveva
condannato le donne che dopo avere scelto la vedovanza non avevano voluto tener
fede a questo proposito. Se si tratta di una grazia, perché le minacci dicendo «Vengono
giudicate, perché hanno rinnegato la fede primitiva»? Cristo non ha mai punito
coloro che non avevano la grazia, ma ha condannato sempre coloro che non davano
prova di una vita retta: le cose che soprattutto cercava, erano la perfetta
condotta di vita e le azioni irreprensibili. La distribuzione delle grazie non
dipende dalla scelta di chi le riceve, ma dal giudizio di chi le offre. Per
questo Cristo non loda mai gli autori dei miracoli, e toglie ai discepoli che
se ne vantano questa soddisfazione, dicendo: «Non rallegratevi perché i demoni
vi ubbidiscono». Coloro che vengono sempre considerati beati sono gli umili, i
miti, i puri di cuore, i pacifici, coloro che hanno tutte queste qualità ed
altre simili.
3. Lo stesso Paolo, enumerando i propri atti virtuosi, ricorda tra essi
anche la continenza. Dopo aver detto «Nella grande perseveranza, nei tormenti,
nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle oppressioni, nei colpi, nelle
prigionie, nelle sofferenze, nei tumulti, nelle veglie, nei digiuni. aggiunge: «nella
purezza»: non l’avrebbe fatto, se si fosse trattato di una grazia. Egli deride
coloro che non la possiedono, chiamandoli intemperanti Perché colui che non dà
in sposa la propria figlia vergine si comporta meglio? Perché la vedova che
resta tale è più felice? Come ho detto prima, le beatitudini ed i castighi
dipendono non dai miracoli, ma dalle opere. Perché mai Paolo dovrebbe insistere
ancora sulle stesse raccomandazioni se la cosa non ci riguardasse ed oltre
all’intervento di Dio non fosse necessario il nostro impegno? Dopo aver detto «Voglio
che tutti gli uomini siano come me», vale a dire continenti, aggiunge: «Dico ai
celibi ed alle vedove che è meglio restare come me». Di nuovo, e per lo stesso
motivo, si cita come esempio: a suo parere, i suoi ascoltatori, avendo un
esempio così vicino e diretto, avrebbero affrontato con più impegno le fatiche
della verginità. Non meravigliarti se, dopo aver detto prima «Voglio che tutti
siano come me», e dopo avere aggiunto qui «È bene per loro restare come me»,
non ne spiega affatto il motivo. Non fa questo per vanagloria, ma perché pensa
che sia sufficiente la sua convinzione personale, con la quale realizzò questa
virtù.
XXXVII. Nelle seconde nozze accadono molte cose spiacevoli
1. Chi vuole ascoltare anche dei ragionamenti, esamini in primo luogo
l’opinione comune, e poi ciò che si verifica in tali frangenti. Anche se i
legislatori non puniscono le seconde nozze ma le consentono e le autorizzano,
molte persone, sia in privato che in pubblico, ne parlano spesso male,
dileggiandole, biasimandole e rifiutandole. Tutti respingono coloro che le
contraggono come se fossero, per così dire, degli spergiuri; nessuno se la
sente di farseli amici, o di stringere accordi con loro, o di concedere loro la
benché minima fiducia. Le persone infatti, quando vedono che costoro scacciano
dalla loro mente con tanta disinvoltura il ricordo di una familiarità, di un
amore, di un’intimità, di una vita comune, sono vittime di una sorta di
paralisi; non possono avvicinarli con animo del tutto sincero, perché li
considerano volubili ed instabili, e li allontanano non solo per questi motivi,
ma anche per le cose spiacevoli che si verificano.
2. Dimmi: che cosa c’è di più spiacevole del fatto che ai molti gemiti, ai
lamenti, alle lacrime, ai capelli in disordine, alle vesti nere, subentrino
improvvisamente gli applausi, le camere nuziali, e delle agitazioni opposte
alle precedenti, come se degli attori recitassero sulla scena e diventassero
ora l’uno, ora l’altro personaggio? Sulla scena, si può vedere lo stesso attore
nelle vesti ora di un re, ora del più povero degli uomini; nel nostro caso,
colui che prima si rotolava vicino alla tomba, diventa improvvisamente sposo;
colui che si strappava i capelli, porta di nuovo sullo stesso capo la corona;
colui che era abbattuto e cupo, che spesso pronunziava piangendo molti elogi
della sposa defunta di fronte a coloro che cercavano di consolarlo, che diceva
che la vita gli era divenuta impossibile, che s’irritava contro chi cercava di
distoglierlo dai suoi lamenti, spesso, proprio nel mezzo del suo lutto, si
abbellisce e si adorna di nuovo, sorride alle stesse persone con gli stessi
occhi con cui prima piangeva, si mostra affabile ed accoglie tutti con la
stessa bocca con cui prima pronunciava degli scongiuri contro tutto.
3. Ma la cosa più pietosa è la guerra condotta contro i figli, provocata dalla
leonessa che abita assieme alle figlie: tale veste assume sempre la matrigna.
Da lei si originano i disordini ed i litigi quotidiani, e l’animosità strana ed
insolita contro la defunta che non le dà alcun fastidio. I vivi colpiscono con
l’invidia e ne sono colpiti, ma con i morti anche i nemici si rappacificano. Ciò
non avviene però in questo caso: la polvere e la cenere sono oggetto d’invidia,
la sepolta è bersaglio di un odio indicibile, colei che è divenuta terra riceve
biasimi, motteggi ed accuse; un’inimicizia implacabile si accende contro colei
che non ha fatto alcun male. Che cosa c’è di peggiore o di più crudele di
questa follia? La nuova sposa, che non ha ricevuto alcun torto dalla defunta —
ma perché usare quest’espressione? La nuova sposa, che trae profitto dalle sue
fatiche e che gode dei suoi beni, non cessa di combattere contro la sua ombra;
ogni giorno colpisce con infiniti motteggi colei che spesso non ha neppure
visto, si vendica di colei che non è più, facendo del male ai suoi figli, e
spesso, quando non riesce nel suo intento, aizza il marito contro di loro.
Eppure, gli uomini trovano tutto questo facile e sopportabile, pur di non
essere costretti a sottomettersi alla tirannia della concupiscenza.
4. La vergine, al contrario, non prova le vertigini di fronte a questo
combattimento, e non fugge lo scontro che sembra cosí insostenibile ai più, ma,
grazie alla sua nobiltà d’animo, rimane ferma ed accetta la battaglia voluta
dalla natura. Come la si può ammirare secondo i suoi meriti? Mentre infatti gli
altri per non bruciare hanno bisogno di nuove nozze, lei, che non si è sposata
neanche una volta, resta sempre santa ed incolume. Per questo motivo, ed ancora
di più perché pensava ai premi riservati nei cieli alla vedovanza, colui che fa
parlare Cristo in sé disse: «È bene per loro se rimangono come me». Non hai
avuto la forza di salire fino alla cima più alta? Raggiungi almeno quella che
si trova subito dopo di essa: la vergine ti sia superiore solo in questo, nel
non essersi lasciata vincere dal desiderio neanche una volta; nel tuo caso,
invece, la concupiscenza, dopo averti vinto in un primo tempo, non è riuscita a
tenerti sempre in suo potere. Tu hai vinto dopo una sconfitta, lei gode di una
vittoria che non conosce sconfitte: solo all’inizio ti supera, mentre alla fine
ti è pari.
XXXVIII. Perché Paolo consola tanto le persone sposate, mentre non concede
tregua alle fatiche della vergine
1. Come mai dunque Paolo consola le persone sposate fino al punto da non
farle separare se una delle due non vuole, e da non prolungare il distacco
avvenuto di comune accordo? Inoltre, se vogliono, concede un secondo
matrimonio, perché non brucino. Verso le persone vergini, invece, non si mostra
affatto cosí indulgente: mentre, dopo un breve intervallo, lascia di nuovo
libere le persone sposate, alla vergine che non ha un attimo di respiro e che
combatte continuamente, ingiunge di stare sempre al suo posto e di farsi
bersagliare dai desideri, senza concederle neanche una piccola pausa. Perché
mai non ha detto anche a proposito di lei: «Se non è continente, si sposi»?
Perché neanche all’atleta si potrebbe dire, dopo che ha gettato via la veste,
che si è unto, che è entrato nell’arena e che si è cosparso di polvere: «Ritirati
e fuggi via dall’avversario»; al contrario, non può non verificarsi una di
queste due eventualità: l’atleta se ne andrà o con la corona della vittoria, o
pieno di vergogna, dopo essere caduto. Nel ginnasio e nella palestra, quando si
esercita con altri che conosce bene, quando affronta gli amici come se fossero
avversari, l’atleta è padrone d’impegnarsi o no; quando è invece iscritto alla
gara, quando la folla si raduna nel teatro, quando l’arbitro è presente, quando
gli spettatori sono seduti e l’avversario gli si trova di fronte, la legge
della gara non gli lascia scelta.
2. Anche per la vergine, prima che decida se sposarsi o no, il matrimonio
non presenta alcun pericolo. Ma dopo che ha preso la decisione e si è iscritta,
allora fa il suo ingresso nello stadio. Quando il teatro è affollato, quando
gli angeli la guardano dall’alto, quando Cristo fa da arbitro, quando il
diavolo s’infuria, digrigna i denti, è stretto nella lotta ed è afferrato alla
vita, chi oserebbe farsi avanti e dirle: «Fuggi via dal nemico, rinunzia alle
tue fatiche, lascia la presa, non abbattere l’avversario, non fargli lo
sgambetto, e lasciagli la vittoria»?
3. Ma perché parlare delle vergini? Neanche alle vedove qualcuno oserebbe
fare tale discorso, ma pronuncerebbe al loro indirizzo queste terribili parole:
«Se mettono da parte Cristo e vogliono sposarsi, saranno giudicate, perché sono
venute meno al primo impegno». Eppure, Paolo stesso dice: «Dico ai non sposati
ed alle vedove che è megho se rimangono come me; se però non riescono ad essere
continenti, si sposino». E ancora: «Se suo marito muore, è libera di sposare
chi vuole, purché lo faccia nel Signore».
XXXIX. A quali vedove ed a quali vergini Paolo permette di sposarsi
1. Come mai dunque Paolo condanna colei che lascia libera, e giudica
illegittimo il matrimonio che dice «essere nel Signore»? Non temere: non si
tratta dello stesso matrimonio, ma di due matrimoni diversi. Come, quando dice «Se
la vergine si sposa, non pecca», intende parlare non di colei che ha rinunziato
al matrimonio (è evidente a tutti che costei commette un peccato, ed un peccato
intollerabile), ma di colei che, non ancora sposata, non ha preso ancora
nessuna decisione in merito, ma resta indecisa tra le due soluzioni, cosí, per
quanto riguarda la vedova, nel secondo caso intende parlare di quella che, non
avendo più il marito, non è ancora legata alla decisione presa liberamente e
che è ancora libera di scegliere l’una o l’altra soluzione, mentre nel primo
caso si riferisce a quella che non è più padrona di stare con un altro sposo, e
che si è impegnata nelle lotte della continenza.
2. La vedova, se non ha ancora accettato di rimanere tale, può infatti,
pur essendo vedova, non essere ammessa alla dignità di questo stato. Per questo
Paolo dice: «Venga ammessa alla dignità di vedova colei che ha non meno di
sessant’anni e che è stata la moglie di un unico marito. Alla semplice vedova
consente, se vuole, di risposarsi, mentre condanna aspramente la vedova che,
dopo avere promesso a Dio di rimanere tale, poi si risposa calpestando il patto
stretto con Dio. Non parla a quest’ultima, ma alla prima quando dice: «Se non
sono continenti, si sposino; è meglio sposarsi che bruciare». Non vedi che il
matrimonio non è mai ammirato di per sé, ma solo in rapporto alla fornicazione,
alle tentazioni ed all’incontinenza? In precedenza aveva impiegato questi
termini; ora invece, dopo averli fatti segno di violenti rimproveri, usa per la
stessa cosa parole più benevole, chiamandola incendio e fuoco.
3. Neanche qui però è riuscito a passare oltre senza rimproverare
l’ascoltatore. Non ha detto infatti «Se subiscono violenze da parte dei
desideri, se vengono sconvolti, se non possono». Non ha usato nessuna di queste
espressioni, che si addicono a chi soffre ed è degno di perdono. Che cosa ha
detto invece? «Se non sono continenti», frase che si riferisce a coloro che per
pigrizia non vogliono impegnarsi: in tal modo, egli fa vedere che costoro, pur
potendo riuscire, non riescono perché non vogliono faticare. Ciò nonostante,
non li punisce né li condanna alla pena, ma si imita a non lodarli ed a
mostrarsi severo solo con rimproveri verbali; non ricorda la procreazione, il
motivo più bello e più nobile del matrimonio, ma solo il fuoco, l’intemperanza,
la fornicazione e le tentazioni sataniche, consentendo le nozze solo per
evitare quei mali.
4. «E che importanza ha questo? — mi si potrebbe obiettare —. Finché il
matrimonio tiene lontana la punizione, sopporteremo di buon grado ogni condanna
ed ogni offesa: basta che ci sia consentito di godere dei piaceri e di
soddisfare sempre i nostri desideri». E che cosa succederebbe, o caro, se, non
potendo più godere dei piaceri, ci attirassimo solo il biasimo? «Come? — mi si
direbbe — non si può godere, dopo che Paolo ha detto «Se non sono continenti,
si sposino»?».
5. Ascolta però anche le parole che vengono dopo di queste. Hai sentito
che è meglio sposarsi che bruciare; hai accolto di buon grado il piacere, hai
lodato la concessione, hai ammirato la condiscendenza dell’apostolo; ma non
fermarti a questo: accetta anche quello che viene dopo, giacché l’una e l’altra
prescrizione provengono dalla stessa persona. Che cosa dice dunque dopo? «Agli
sposati prescrivo — non io, ma il Signore — che la moglie non si separi dal
marito; se si separa, la moglie non si risposi, o si riconcili con il marito;
ed il marito non ripudi la propria moglie.
XL. Aspra ed inevitabile è la schiavitù del matrimonio
1. Che cosa succede quando il marito è affabile, mentre la moglie è
cattiva, incline al biasimo, ciarliera, prodiga — malattia quest’ultima che è
comune a tutte le donne — e piena di molti vizi? Come farà il poveretto a
sopportare questo tormento quotidiano, quest’orgoglio e quest’impudenza? E che
cosa succede, se al contrario la moglie è modesta e mite, mentre il marito è
insolente, portato al disprezzo, irascibile e gonfio di orgoglio per le sue
ricchezze e la sua potenza, e tratta la consorte — che pure è libera — come una
schiava, senza amarla più delle ancelle? Come farà la sposa a sopportare tale
costrizione e violenza? E che cosa succede, se il marito non fa che
allontanarla, e continua a comportarsi cosí per tutta la vita? «Sopporta — dice
l’apostolo — tutta questa schiavitù: sarai libera solo quando morirà; finché
vivi, delle due l’una: o dovrai impegnarti molto per educarlo e renderlo
migliore, oppure, se questo è impossibile, dovrai sopportare nobilmente questa
guerra implacabile e questa battaglia senza tregua».
2. Prima aveva detto: «Non separatevi se non di comune accordo». Qui,
ingiunge alla sposa che si è separata di restare d’ora in poi continente anche
contro la sua volontà. Dice infatti: «Non si risposi, oppure si riconcili con
il marito». Vedi com’è presa tra due fuochi? O deve sopportare la violenza del
desiderio, o, se non vuole farlo, adulare chi l’offende e consegnarsi a lui
perché faccia di lei ciò che vuole: egli può infierire con le percosse,
sommergerla di rimproveri, consegnarla al disprezzo dei servi o fare altre
simili cose.
3. Molti mezzi sanno escogitare i mariti, quando vogliono punire le loro
mogli. Se la sposa non sopporta tutto questo, deve praticare una continenza
sterile: dico sterile perché le manca il presupposto adatto, in quanto è
prodotta non dal desiderio di santità, ma dall’ira verso il marito «Non si
risposi — dice l’apostolo — o si riconcili con il marito». «Che cosa accade, se
non vuole più riconciliarsi?» ci si potrebbe chiedere. Hai un’altra soluzione
ed un’altra via di uscita. Quale? Attendi la sua morte.
4. Come infatti la vergine non può mai sposarsi perché il suo sposo vive
sempre ed è immortale, cosí alla donna sposata è consentito di risposarsi solo
quando muore il marito. Se infatti, mentre vive, potesse passare da lui ad un
altro uomo, e poi da quest’ultimo ad un altro ancora, a che cosa servirebbe più
il matrimonio? In tal caso, gli uomini si prenderebbero gli uni le mogli degli
altri senza più distinzioni, e tutti si unirebbero con tutte le donne. E come
non si deteriorerebbero i nostri rapporti con coloro che coabitano con noi, se
ora l’uno, ora l’altro, ora altri ancora, convivessero con la stessa donna?
Giustamente il Signore ha chiamato tale condotta adulterio.
XLI. Perché Dio consentì ai Giudei il ripudio
1. Come ha potuto dunque Dio permettere questo ai Giudei? È chiaro che
l’ha fatto a causa della durezza dei loro cuori, perché non riempissero le loro
case del sangue dei congiunti. Dimmi, cos’è meglio, scacciare la sposa odiata o
trucidarla in casa? Avrebbero fatto questo, se non avessero avuto il permesso
di scacciarla. Per questo è detto: «Se la odi, ripudiala». Quando invece parla
con le persone più miti e con quelle alle quali non permette neppure di
adirarsi, che cosa dice l’apostolo? «Se si separa, non si risposi». Vedi la
costrizione, la schiavitù inevitabile, il legame che stringe entrambi? Un vero
e proprio legame è infatti il matrimonio, non solo a causa del gran numero di
preoccupazioni e di angustie quotidiane, ma anche perché costringe i coniugi a
sottostare l’uno all’altro, in un modo più severo di quello usato con i servi.
2. È detto: «Il marito abbia autorità sulla moglie». Ma quale guadagno
ricava da tale signoria? Dio infatti, rendendolo a sua volta schiavo di colei
che gli è sottoposta, ha escogitato un nuovo e strano scambio di schiavitù. Come
i servi che hanno cercato di fuggire, quando vengono legati dai padroni sia uno
per uno che l’uno all’altro e fissati da entrambe le parti ai ceppi con una
breve catena, non possono camminare liberamente perché l’uno è costretto a
seguire l’altro; cosí anche le anime delle persone sposate, pur avendo dei
pensieri propri, subiscono la costrizione dovuta al legame che le stringe l’una
all’altra: si tratta di una costrizione più pesante di qualsiasi catena, perché
le soffoca, le priva entrambe di ogni libertà, non dà mai il comando a nessuna
delle due, ed insegna ad entrambe la facoltà di decidere. Dove sono coloro che
sono pronti a sopportare tutte le condanne pur di essere consolati dal piacere?
3. In effetti, quando le liti e gli odi reciproci portano via molto tempo,
una non piccola parte del piacere viene spesso annullata. La schiavitù dovuta
al fatto che l’uno è costretto a sopportare suo malgrado la cattiveria
dell’altro, basta a gettare un’ombra su ogni godimento. Per questo quel beato
apostolo cercò in un primo tempo di frenare con le esortazioni l’impulso del
desiderio, ricordando la fornicazione, l’intemperanza ed il fuoco. Accortosi
però che queste parole di rimprovero non avevano molta presa sui più, per
distoglierli ricorse ad un argomento molto più forte, quello che aveva fatto
dire ai discepoli «Non conviene sposarsi»: si tratta del fatto che nessuna
delle persone sposate è più padrona di sé. Egli non l’introduce sotto forma di
esortazione, ma dà ad esso la costrizione del precetto e del comandamento.
Mentre dipende da noi lo sposarsi o no, non dipende più da noi sopportare la
schiavitù non volontariamente, ma nostro malgrado.
4. E perché mai? Perché quando all’inizio la scegliemmo, non l’ignoravamo,
ma conoscevamo bene le sue prescrizioni e le sue leggi, e ci sottomettemmo
spontaneamente al suo giogo. Dopo avere parlato di coloro che coabitano con
mogli non credenti, avere passato in rassegna minutamente tutte le leggi del
matrimonio, avere fatto un discorso su servi ed avere consolato questi ultimi
in misura sufficiente, esortandoli a non degradare con lo stato di schiavitù la
loro nobiltà spirituale, Paolo passa quindi a parlare della verginità: già da
tempo teneva dentro di sé queste parole e desiderava spargerle come semi, ma
solo ora le fa venire alla luce; neanche durante il discorso sul matrimonio era
però riuscito a tacere del tutto.
5. Nella sua esortazione al matrimonio ne aveva infatti parlato, sia pure
in modo breve e frammentario: esercitate le orecchie e disposte bene le menti
degli ascoltatori con quest’ottimo metodo, preparò per le sue parole il
migliore ingresso. Dopo avere rivolto un’esortazione ai servi — «siete stati
comprati ad un certo prezzo, non diventate schiavi degli uomini» –, dopo avere
ricordato i benefici del Signore; dopo avere cosí innalzato ed elevato al cielo
i pensieri di tutti, pronunziò il discorso sulla verginità dicendo: «Per quanto
riguarda le vergini, non ho un ordine del Signore, ma esprimo un parere, giacché
se sono credente, lo devo alla sua misericordia». Eppure, pur non avendo degli
ordini, quando parlavi dei credenti sposati alle non credenti legiferavi con
grande autorità e prescrivevi: «Agli altri parlo io, non il Signore: un
fratello che ha una moglie non credente, se costei desidera vivere con lui, non
la scacci».
6. Perché allora non ti esprimi allo stesso modo a proposito delle
vergini? Perché su quest’argomento Cristo ha chiaramente manifestato il suo
volere, vietando che la cosa assumesse la costrizione propria di un ordine. La
frase «chi è in grado d’intendere, intenda» lascia l’ascoltatore libero di
scegliere. Parlando della continenza, l’apostolo dice: «Voglio che tutti gli
uomini siano come me», vale a dire continenti. E ancora: «Dico ai non sposati
ed alle vedove: è una buona cosa se rimangono come me». Parlando invece della
verginità, non si cita mai come esempio, ma si esprime con molta riservatezza e
circospezione, perché egli stesso non era riuscito a realizzare questa virtù: «Non
ho un’ordine, dice.
7. Egli dà il suo consiglio solo dopo avere lasciata libera la scelta ed
essersi conquistato il favore dell’ascoltatore. Poiché infatti la parola «verginità»,
non appena profferita, fa subito pensare ad un gran numero di fatiche, non dà
subito inizio alla sua esortazione, ma predispone prima il discepolo,
lasciandolo libero di vedere o no nelle sue parole un ordine e rendendo la sua
anima docile e malleabile: solo dopo aver fatto questo si spiega meglio. Hai
sentito parlare di verginità, parola che comporta fatiche e sudori. Non temere:
non hai a che fare con un ordine, né con la costrizione di un comandamento; la
verginità concede in cambio i propri beni a coloro che l’abbracciano
spontaneamente, di loro libera scelta, mettendo sul loro capo una corona
splendida e fiorente, mentre non punisce né forza contro il suo volere chi la
rifiuta e non la vuole avvicinare.
8. L’apostolo ha saputo eliminare dal suo discorso ogni aspetto sgradevole
e renderlo piacevole non solo cosí, ma anche dicendo che non era lui, ma
Cristo, a concedere questo favore. Non ha detto infatti: per quanto riguarda le
vergini non comando, ma «non ho un comando». È come se avesse detto: se avessi
rivolto quest’esortazione mosso dai miei pensieri umani, non avrei meritato
alcuna fiducia; ma poiché essa corrisponde ai voleri di Dio, il pegno della
fiducia è sicuro. Sono privo della facoltà di dare un simile ordine, ma se
volete ascoltare uno che come voi è schiavo di Cristo, ricordatevi che «esprimo
un parere, come un uomo che deve alla misericordia del Signore la sua fede in
lui».
9. È giusto ammirare, in questo contesto, la grande abilità ed
intelligenza del beato apostolo: preso tra due esigenze contrarie, raccomandare
la sua persona in modo che il suo consiglio trovasse una buona accoglienza e
non vantarsi troppo giacché non aveva saputo raggiungere questa virtù, riuscì
subito in entrambi gl’intenti. Dicendo «Come un uomo che deve alla misericordia
del Signore», raccomanda in un certo senso se stesso; d’altra parte, non
mettendosi troppo in luce nel momento in cui agisce cosí, si umilia e si
abbassa.
XLII. Dell’umiltà di Paolo
1. Egli non ha detto infatti: esprimo un parere perché mi è stato affidato
il messaggio evangelico, perché sono stato ritenuto degno di essere il
predicatore dei popoli, perché sono stato incaricato di dirigervi, perché sono
il vostro maestro e la vostra guida. Che cosa dice invece? «Perché devo alla
misericordia del Signore la mia fede in lui»: in tal modo, adduce un motivo
meno importante. L’essere semplicemente un fedele è infatti meno importante
dell’essere il maestro dei fedeli. Ma anche ad un altro modo di umiliarsi egli
ha pensato. A quale? Non ha detto: perché sono divenuto un fedele di Cristo, ma
perché «devo alla misericordia del Signore la mia fede». Non ritenere doni di
Dio solo l’apostolato, la predicazione e l’insegnamento: anche la mia fede in
lui viene dalla sua misericordia. Sono stato ritenuto degno della fede non
perché ne fossi degno, ma solo perché sono stato commiserato; e la misericordia
è frutto della grazia, non del merito.
2. Di conseguenza, se Dio non fosse stato tanto misericordioso, non avrei
potuto essere chiamato non solo «apostolo», ma neanche «fedele». Hai notato la
buona disposizione d’animo del servitore, e la contrizione del suo cuore? Non
si attribuisce nulla in più degli altri, e quello che ha in comune con i suoi
discepoli deriva, a suo dire, non da lui stesso ma dalla misericordia e dalla
grazia di Dio usando queste parole, come se volesse dire: non rifiutatevi di
accogliere il mio consiglio, giacché Dio non mi ha rifiutato la sua
misericordia. Non rifiutatevi, anche perché si tratta di un parere, non di un
ordine: dò un consiglio, non una legge. Nessuna legge ci proibisce di rivelare
le cose utili che vengono in mente ad ognuno di noi, specie poi quando ciò
avviene in seguito ad una richiesta degli ascoltatori, come nel vostro caso. «Penso
— dice — che questa sia una buona cosa. Non vedi che il suo discorso si fa di
nuovo umile, e si priva di ogni autorità? Avrebbe anche potuto dire: poiché il
Signore non ha comandato la verginità, neanch’io la comando; visto che sono il
vostro apostolo, mi limito a consigliarla e vi esorto ad imitarla.
3. Più avanti, infatti, rivolgendosi a loro, dice: «Se per gli altri non
sono l’apostolo, lo sono però per voi». Qui, invece, non dice nulla di tutto
questo, ma usa le sue parole con molta circospezione: invece di «consiglio»
dice «esprimo un parere», invece di «come maestro» dice «perché devo alla
misericordia del Signore la mia fede in lui». E come se tutto ciò non bastasse
a rendere dimesso il suo discorso, nel momento in cui comincia a dare i
consigli ne diminuisce ancor più l’autorità, in quanto non si limita ad
enunciarli, ma ne spiega il motivo. «Penso che ciò sia una buona cosa — dice —
a causa delle necessità presenti». Eppure, parlando della continenza, non aveva
detto «penso», né aveva fornito spiegazioni, ma aveva detto soltanto «per loro è
bene rimanere come me»; qui, invece, dice: «Penso che sia una buona cosa, a
causa delle necessità presenti». Dicendo questo, non nutre dubbi sull’argomento
— non sia mai! — ma intende rimettere tutto al giudizio degli ascoltatori. Il
consigliere non pronunzia il verdetto con le sue parole, ma lascia dipendere
tutto dalla decisione dell’uditorio.
XLIII. Quali sono le necessità presenti di cui parla Paolo
Quali sono le necessità presenti di cui parla qui? I bisogni naturali?
Niente affatto. Innanzitutto, se avesse voluto alludere a questi, ricordandoli
avrebbe prodotto un effetto contrario alle sue intenzioni, giacché chi vuole sposarsi
intende soddisfarli sempre. In secondo luogo, non li avrebbe chiamati «presenti»,
giacché sono stati piantati nel genere umano non ora, ma da molto tempo; e
mentre prima erano molto forti ed indomabili, ora invece, dopo la venuta del
Signore e la crescita della virtù, possono essere vinti più facilmente. Di
conseguenza, non di essi parla l’apostolo, ma di un altro bisogno, che assume
molte forme e molti aspetti. Di quale si tratta? Della perversione che regna
nelle vicende della vita. Tale è la confusione, tale è la tirannia esercitata
dalle preoccupazioni, tale è il numero delle difficoltà, che spesso chi si
sposa è costretto anche suo malgrado a commettere peccati ed azioni cattive.
XLIV. È più facile raggiungere il regno dei cieli con la verginità che con
il matrimonio
1. Anticamente, in effetti, non ci veniva proposto un così alto grado di
virtù: potevamo difenderci dalle offese, rispondere a chi ci biasimava,
preoccuparci delle ricchezze, impegnarci con un giuramento, applicare la norma «occhio
per occhio», odiare i nemici: non ci era proibito né vivere nel lusso, né
adirarci, né scacciare una moglie e prenderne un’altra. Non solo, ma la legge
ci consentiva di avere due mogli nello stesso tempo, e mostrava una grande
indulgenza sia in queste cose che in tutte le altre. Dopo la venuta di Cristo,
la strada si è fatta invece molto più stretta: non solo è stata sottratta al
nostro potere l’indescrivibile, enorme licenza che regnava in tutte le cose che
ho enumerato, ma dobbiamo anche tenerci in casa la moglie, che spesso c’induce
e ci costringe a peccare nostro malgrado; nel caso in cui volessimo scacciarla
saremmo infatti rei di adulterio.
2. Non solo per questo motivo ci è difficile raggiungere la virtù, ma
anche perché, pur ammettendo che la donna che abita con noi abbia un carattere
sopportabile, il gran numero di pensieri che ci circonda, causato da lei e dai
suoi figli, non ci lascia alzare lo sguardo verso il cielo neanche un momento:
a guisa di un turbine, scuote da ogni parte la nostra anima e la sommerge.
L’uomo, anche se vuole condurre una vita senza rischi e quieta come un privato
cittadino, quando si vede intorno i figli e la moglie che ha bisogno di molto
danaro, suo malgrado si tuffa nell’onda degli affari pubblici. Una volta
cadutovi, non si possono descrivere i peccati che è costretto a commettere
adirandosi, usando modi violenti, giurando, rimproverando, comportandosi da
ipocrita e compiendo molte azioni per compiacere o perché spinto dall’odio.
Quando è sbattuto da tale tempesta e vuole diventare famoso, come può evitare
di tirarsi addosso la grande sporcizia dei peccati? Se poi si considerano le
faccende domestiche, si vede che il marito, a causa della moglie, è sommerso
dalle stesse difficoltà, e anche da altre maggiori, giacché deve preoccuparsi
di tante cose di cui non avrebbe bisogno se fosse solo. Questo succede quando
la moglie è buona e mite. Se invece è cattiva, odiosa ed insopportabile, non si
può più parlare di bisogni, ma di supplizi e punizioni. Come potrà percorrere
la strada che porta in cielo, che richiede piedi liberi e leggeri ed un’anima
agile e spedita, se su di lui incombe il peso di tante faccende, se è legato a
ceppi cosí forti, se è sempre trascinato verso il basso da tale catena,
rappresentata dalla malvagità della moglie?
XLV. Per coloro che escogitano delle difficoltà superflue non c’è nessuna
ricompensa
1. Ma qual è il saggio discorso che la gente comune fa per rispondere a
tutte le difficoltà che abbiamo enumerato? Si dice: «Chi realizza la virtù pur
tra così grandi costrizioni, non merita forse un onore maggiore?». «Per quale
motivo, o mio caro?». «Perché sposandosi si è sobbarcato ad una fatica più
forte». E chi l’ha costretto a portare un tale carico? Se, sposandosi, avesse
ubbidito ad un comandamento e non sposandosi avesse trasgredito la legge,
questo discorso sarebbe accettabile. Ma se, pur essendo libero di non
sottoporsi al giogo del matrimonio, preferisce mettersi in mezzo a così gravi
difficoltà senza esservi costretto da nessuno, in modo da rendersi più aspra la
lotta per la virtù, tutto questo non riguarda l’arbitro della gara.
Quest’ultimo, infatti, ha comandato una cosa sola: di condurre una guerra
contro il diavolo fino al conseguimento della vittoria sulla malvagità. A lui
non interessa affatto se questo fine viene raggiunto con il matrimonio, con i
piaceri e con le molte preoccupazioni, oppure con l’ascesi, la mortificazione e
la noncuranza per tutto il resto. Egli dice che il mezzo per ottenere la
vittoria e la strada che conduce al trofeo sono rappresentati dal distacco da
tutte le cose mondane.
2. Poiché tu, pur avendo la moglie, i figli e le preoccupazioni che questi
si trascinano dietro, vuoi fare una campagna e combattere per raggiungere gli
stessi risultati conseguiti da coloro che non si trovano impigliati in nessuna
di queste cose e per conquistarti quindi una più grande ammirazione, forse ci
tacceresti ora di presunzione, se ti dicessimo che non puoi arrivare alla loro
vetta. Alla fine però il momento della premiazione ti farà capire che la
sicurezza è di gran lunga preferibile alla vuota ambizione, e che è meglio
ubbidire a Cristo che alla vanità dei propri pensieri. Cristo dice infatti che
per raggiungere la virtù non basta che ci stacchiamo dalle nostre cose, se non
odiamo noi stessi. Tu invece, pur essendo sporcato da esse, dici di poterle
superare. Ma, come ho detto, in quel momento capirai bene quale ostacolo
rappresentino per la virtù la moglie e le preoccupazioni relative.
XLVI. Come mai la Scrittura chiama la donna «aiuto dell’uomo» se gli è di
ostacolo nella vita perfetta
1. «Come mai dunque — si dirà — la Scrittura chiama aiuto colei che è di
ostacolo? È detto infatti: facciamo un aiuto simile a lui». Ed io ti chiederò:
come può essere un aiuto colei che ha privato l’uomo di tanta sicurezza, e che
l’ha scacciato da quel meraviglioso soggiorno nel paradiso, gettandolo nel
tumulto della vita presente? Tutto ciò può fare non chi aiuta, ma chi insidia. «La
donna — è detto — è il principio del peccato, ed a causa sua noi tutti moriamo».
Ed il beato Paolo dice: «Adamo non fu ingannato; fu la donna che, ingannata,
commise la trasgressione.
2. Come può dunque essere un aiuto colei che ha messo l’uomo in balia
della morte? Come può essere un aiuto colei a causa della quale i figli di Dio,
o per meglio dire tutti gli abitanti della terra, morirono sommersi assieme
alle bestie, agli uccelli ed a tutti gli altri animali? Non sarebbe stata la
donna la causa della perdizione del giusto Giobbe, se questi non fosse stato
veramente uomo. Non fu la donna a provocare la rovina di Sansone? Non fece la
donna del suo meglio, perché tutto il popolo Ebreo fosse iniziato al culto di
Beelfegor e venisse trucidato per mano dei suoi fratelli? E chi più di ogni
altro consegnò al diavolo Acaab, e prima di lui Salomone, nonostante la sua
grande sapienza e fama? Anche ora, non inducono spesso le donne i loro mariti
ad offendere Dio? Non ha forse detto per questo il saggio «Qualsiasi cattiveria
è piccola, se paragonata alla cattiveria della donna»?
3 «Come mai dunque — mi si chiede — Dio ha detto: «Facciamogli un aiuto
simile a lui»? Dio non mente». Neanch’io lo dico — non sia mai! la donna fu
fatta a tale scopo e per questo motivo, ma, al pari del suo compagno, non volle
rimanere nella dignità che le era propria. L’uomo era stato creato da Dio a sua
immagine e somiglianza: «Facciamo — disse infatti Dio — l’uomo a nostra
immagine e somiglianza», cosí come disse «facciamogli un aiuto». Una volta
creato però l’uomo perse subito entrambe queste prerogative. Non seppe conservare
né l’immagine né la somiglianza — e come avrebbe potuto, se si consegnò
all’assurdo desiderio, se divenne preda dell’inganno, e se non riuscí a vincere
il piacere? L’immagine, suo malgrado, gli fu tolta per tutto il tempo
successivo.
4. Dio lo privò di una non piccola parte del suo potere, del privilegio
cioè di essere temuto da tutti come un padrone: allo stesso modo, il padrone fa
sì che il servo ingrato che l’ha offeso venga disprezzato dagli altri servi.
All’inizio, infatti, l’uomo incuteva paura a tutti gli animali. Dio li aveva
condotti tutti da lui, e nessuno osava fargli del male o insidiarlo, perché si
vedeva risplendere in lui l’immagine regale. Ma dopo che oscurò con il suo
peccato questo carattere, Dio lo privò del potere.
5. Il fatto che egli non comanda su tutti gli animali della terra, ma
trema di fronte ad alcuni di essi e li teme, non fa apparire falsa
l’affermazione di Dio «Comandino sugli animali della terra»: la mutilazione del
potere dipese non da chi l’aveva concesso, ma da chi l’aveva ricevuto. Allo
stesso modo, le insidie che le donne tendono agli uomini non rendono vana la
frase «Facciamogli un aiuto simile a lui». La donna fu fatta a tale scopo, ma
non vi restò fedele. A parte questo, si può anche obiettare che la donna dà il suo
aiuto nel tipo di vita presente, per quanto riguarda la procreazione dei figli
ed il desiderio fisico; ma quando questa vita era fuori questione e non
esistevano né la procreazione né il desiderio, perché si parla di «aiuto» senza
ragione? L’uomo, se nelle cose importanti ricorre all’aiuto di colei che è
capace di assisterlo solo in quelle di pochissimo conto si accorge che non solo
non gli è utile, ma l’incatena con le sue preoccupazioni.
XLVII. Come può la donna essere di aiuto nelle cose spirituali
1. Mi si obietterà: «Come potremo allora rispondere a Paolo, quando dice: «Come
puoi sapere, o donna, se salverai tuo marito?» e quando dimostra che il suo
aiuto è necessario nelle cose spirituali?». Io pure sono d’accordo. Non escludo
affatto la donna dalla collaborazione nelle cose spirituali — non sia mai! Dico
solo che vi riesce, quando non si occupa del matrimonio ma, pur rimanendo donna
nella sua natura, si eleva alla virtù degli uomini beati. Non quando si adorna,
non quando si dà ai piaceri, non quando chiede al marito sempre più danaro, non
quando è prodiga e portata a spendere, è in grado di conquistarlo: al
contrario, può farlo solo quando, elevatasi al di sopra di tutte le cose
contingenti, imprime in sé il carattere della vita apostolica; quando fa mostra
di una grande mitezza, di una grande modestia, di un grande disprezzo per le
ricchezze e di una grande rassegnazione; quando dice: «Se abbiamo di che
nutrirci e di che coprirci, ci contentiamo», quando con il suo comportamento fa
vedere di praticare tale filosofia e, disprezzando la morte del corpo, non
attribuisce nessun valore alla vita presente; quando, secondo il detto del
profeta, ritiene la gloria di questa vita un fiore di campo.
2. La moglie, infatti, non è in grado di salvare il marito unendosi a lui
nella sua qualità di sposa, ma soltanto facendo mostra di una vita condotta
secondo il vangelo; molte donne sono riuscite in quest’intento anche al di
fuori del matrimonio. Si racconta che Priscilla, accolto presso di sé Apollo,
gli fece da guida per tutta la strada della verità. Anche se ora questo non è
più possibile, le spose possono sempre mostrare lo stesso impegno e raccogliere
gli stessi frutti. Come ho detto prima, la sposa non trascina con sé il marito
per il fatto di essere sposa, giacché nessun marito che ha la moglie credente
rimarrebbe non credente, se i rapporti coniugali e la coabitazione
realizzassero veramente questo. Ma ciò non si verifica affatto: solo il far
mostra di una grande filosofia e di una grande pazienza, il deridere le
difficoltà del matrimonio, e l’adozione continua di una tale condotta giovano
alla salvezza del coniuge; se invece la sposa insiste nella ricerca dei suoi
diritti, non solo non aiuta il marito, ma lo danneggia. Per capire che anche
cosí si tratta di un’impresa molto difficile, devi ascoltare ciò che dice
l’apostolo: «Come puoi sapere, o donna, se salverai tuo marito?». Siamo soliti
far uso di questo tipo di domanda, quando parliamo di eventi inverosimili.
3. Che cosa dice dopo? «Sei legato ad una donna? Non cercare di
liberartene. Sei libero dal legame con una donna? Non cercarne una». Vedi come
passa di frequente da un argomento al suo opposto e come mescola bene le due
esortazioni dopo un breve intervallo? Come nel discorso sul matrimonio aveva
speso alcune parole sulla continenza per risvegliare l’ascoltatore, cosí anche
qui pronunzia delle parole sul matrimonio per farlo riposare. Comincia a
parlare della verginità, ma prima di dire qualcosa sul suo conto si rifugia
subito nel discorso sul matrimonio. La frase «Non ho un ordine» è di chi
consente ed introduce il matrimonio. Dopo essere passato alla verginità ed
avere detto «Penso che sia una cosa buona», accortosi che la frequente
ripetizione del suo nome disturbava molto le orecchie delicate, non usa spesso
questo termine: pur avendo fornito una ragione che da sola bastava ad
incoraggiare le fatiche necessarie a realizzarla — si trattava dei bisogni
presenti — non ha il coraggio di parlare di nuovo di «verginità». Che cosa dice
invece? «È bene per l’uomo restare cosí». Non procede nel suo discorso, ma dopo
averlo troncato prima che sembrasse troppo severo, spende di nuovo delle parole
sul matrimonio dicendo: «Sei legato ad una donna? Non cercare di liberartene».
Se questo non fosse stato il suo scopo, se qui non avesse voluto incoraggiare,
non avrebbe avuto alcun motivo di fare della filosofia sul matrimonio mentre
dava dei consigli sulla verginità. Ritorna quindi a parlare della verginità, ma
neanche ora la chiama con il suo vero nome. Che cosa dice? «Sei libero dal
legame con una donna? Non cercarne una».
4. Ma non temere. Paolo non ha svelato tutto il suo pensiero, né ha
legiferato. Il discorso sul matrimonio ritorna subito, dissipando i timori e
dicendo «Se però ti sposi, non pecchi». Non devi però scoraggiarti: ti trascina
di nuovo alla verginità. Questo è infatti proprio l’intento delle sue parole, là
dove ci fa sapere che chi si sposa deve sopportare un forte tormento carnale.
Come i medici più valenti e più gentili quando devono somministrare una
medicina amara o fare un taglio o una cauterizzazione o qualcun’altra di queste
cose non fanno tutto insieme ma ad intervalli, e solo dopo avere fatto
respirare un po’ l’ammalato applicano quello che c’è ancora da applicare, allo
stesso modo anche il beato Paolo non intesse nel suo discorso i consigli sulla
verginità tutti insieme, senz’interruzione e continuamente, ma l’interrompe
spesso parlando del matrimonio: nascondendo così la loro asprezza, rende le sue
parole più piacevoli e più accette. Questo è il motivo per cui il suo discorso è
cosí vario.
5. Vale ora la pena di esaminare le parole «Sei legato ad una donna? Non
cercare di liberartene. Questa è una frase non di chi consiglia il matrimonio,
ma di chi vuol mostrare la natura inesorabile del suo legame, che non offre
scampo. Perché non ha detto «Hai una moglie? Non la lasciare. Convivi con lei,
non allontanarti», ma ha chiamato «legame» quest’unione? Qui ha voluto mostrare
la pesantezza di tale condizione. Poiché infatti tutti corrono al matrimonio come
se si trattasse di una cosa piacevole, egli fa vedere come gli sposati non
differiscano in nulla da prigionieri legati. Anche nel matrimonio se uno dei
due tira anche l’altro deve seguirlo, e se uno dei due si ribella anche l’altro
deve perire con lui.
Che cosa accade dunque, se mio marito è portato a cadere in basso ed io
voglio essere continente? Devi seguirlo. La catena che il matrimonio ti ha
messo intorno ti trascina e ti tira tuo malgrado verso colui che fin
dall’inizio è legato assieme a te; se opponi resistenza e cerchi di romperla,
non solo non ti liberi dai suoi legami, ma vai incontro alla più grave
punizione.
XLVIII. La moglie che pratica la continenza contro il volere del marito
sarà punita più di quest’ultimo, che pure si dà alla fornicazione.
1. La moglie che intende praticare la continenza contro il volere del
marito non solo si priva dei beni che spettano alla continenza, ma si rende
anche responsabile della sua fornicazione e viene accusata ancora più di lui.
Come mai? Perché, privandolo dell’unione legittima, lo spinge nel baratro della
lussuria. Se non le è permesso di essere continente neanche per un breve
periodo contro il volere del marito, quale perdono può trovare, quando lo priva
costantemente di tale consolazione? Si potrà dire: «Che cosa c’è di più grave
di questa costrizione e di quest’insolenza?». Anch’io sono d’accordo. Perché
dunque ti ci sei sottoposta? Avresti dovuto fare questo ragionamento non dopo
il matrimonio, ma prima.
2. Per questo anche Paolo ricorda in un secondo tempo la costrizione
derivante dal legame matrimoniale e passa quindi a parlare dell’assenza di tale
legame. Dopo aver detto «Sei legato ad una donna? Non cercare di liberartene»
aggiunge «Sei libero dal legame con una donna? Non cercarla». Si comporta così
perché tu, una volta esaminata bene e compresa la forza del giogo, sia più
disposto ad accettare il discorso sul celibato. «Se ti sposi – egli dice – non
pecchi; se la vergine si sposa, non pecca». Ecco dove finisce la grande virtù
del matrimonio: nel non essere accusati, non nell’essere ammirati.
L’ammirazione è infatti una prerogativa della verginità, mentre chi si sposa
deve contentarsi di sentirsi dire che non ha peccato. «Perché dunque – mi si
dice – esorti a non cercare una moglie?». «Perché una volta legati non ci si può
più liberare, perché la cosa comporta molti tormenti». «Dimmi – mi si ribatte
–, l’unico guadagno che ricaviamo dalla verginità è la fuga dai tormenti di
questa vita? E chi potrà sopportare la verginità per questo premio? Chi oserà
impegnarsi in tale gara per prendere solo questa ricompensa dopo tanti sudori?».
XLIX. Perché Paolo c’indirizza verso la verginità partendo dai piaceri di
questa vita.
1. Che cosa dici? Mentre mi esorti a combattere contro i demoni – «la
nostra lotta non si svolge contro il sangue e la carne» – mentre mi spingi a
resistere alle follie della natura, mentre chiedi a me, fatto di carne e di
sangue, di realizzare la stessa virtù delle potenze incorporee ricordi solo i
beni della terra, e ti limiti a dire che non avremo i tormenti derivanti dal
matrimonio? Perché mai non ha detto «La vergine, se si sposa, non pecca, ma si
priva dei beni della verginità, dei doni grandi ed ineffabili»? Perché non ha
passato in rassegna i beni riservati alle vergini assieme all’immortalità?
Perché non ha ricordato che esse, prese le lampade per andare incontro allo
sposo, entreranno assieme al re nella camera nuziale coperte di gloria e
fiduciose, e cne risplenderanno più di ogni altro restando vicine a1 suo trono
ed agli appartamenti regali? Di tutto ciò non fa la benché minima menzione,
mentre dal principio alla fine del suo discorso ricorda la liberazione dai
dispiaceri della vita. «Credo — egli dice — che questo sia una cosa buona».
Tralasciando di aggiungere «a causa dei beni futuri», dice invece «a causa
delle necessità presenti». Quindi, dopo aver detto «La vergine se si sposa non
pecca», tace sull’argomento dei doni celesti di cui si priva, ed aggiunge
soltanto «Costoro avranno i tormenti della carne».
2. Egli mantiene quest’atteggiamento non solo fino a questo punto, ma fino
alla fine. Non mette avanti la verginità parlando dei beni futuri, ma si
rifugia sempre nello stesso motivo, dicendo «Il tempo è breve». Invece di dire «Voglio
che voi nei cieli brilliate e che siate molto più splendenti delle persone
sposate», si trattiene sulle cose di quaggiù dicendo «Voglio che non abbiate
preoccupazioni». Non si comporta cosí solo qui. Anche quando parla della
sopportazione, batte nei suoi consigli la stessa strada. Dopo aver detto «Se il
tuo nemico ha fame dagli da mangiare, se ha sete dagli da bere», dopo avere
dato un tale ordine, dopo avere comandato di fare violenza ai bisogni naturali
e di schierarsi in battaglia contro un fuoco cosí insopportabile, dopo avere
evitato di parlare del cielo e dei beni celesti nel suo discorso sui premi, fa
consistere la ricompensa nel danno subito da chi ha commesso il male: «Facendo
cosí. accumulerai dei carboni ardenti sul suo capo».
3. Perché dunque ricorre a questo tipo di esortazione? Non per errore, o
perché ignori il modo di trascinare e convincere l’ascoltatore, ma perché
possiede più di tutti gli uomini la facoltà di persuadere. E questo da che cosa
risulta? Dalle sue parole. In che modo? Parliamo innanzitutto di ciò che disse
sulla verginità: si rivolgeva ai Corinzi, presso i quali giudicava opportuno di
non dover conoscere nulla oltre a Cristo crocifisso, ai quali non poteva
parlare come avrebbe parlato a persone spirituali, ai quali dava da bere il
latte perché erano ancora carnali, ed ai quali, quando scriveva, muoveva questi
rimproveri: «Vi ho fatto bere il latte, non vi ho dato un cibo solido. Non
eravate in grado di prenderlo; neanche ora lo siete: siete ancora carnali, e
camminate come gli uomini».
4. Per questo, quando li esorta alla verginità e cerca di distoglierli dal
matrimonio, prende le mosse dalle cose di questa terra, vale a dire dalle cose
visibili e sensibili. Sapeva bene che, partendo dalle cose terrene, avrebbe
potuto trascinare meglio questi miseri, ancora attaccati alla terra ed attratti
da essa. Perché mai infatti, dimmi, molti uomini ancora più rozzi e materiali
nelle piccole e grandi cose giurano su Dio e non hanno paura di spergiurare,
mentre non sarebbero mai disposti a giurare sulla testa dei loro figli? Eppure,
lo spergiuro e la punizione sono molto più gravi nel primo che nel secondo
caso; purtuttavia, tali uomini sono trattenuti più dal secondo che dal primo
giuramento.
5. Anche per quanto riguarda l’aiuto ai poveri, costoro non vengono
stimolati tanto dai discorsi sul regno dei cieli, anche se ripetuti più volte,
quanto dalla speranza in qualcosa di utile per i loro figli e per loro stessi
in questa vita. Diventano zelanti in tali aiuti soprattutto quando guariscono da
una lunga malattia, quando riescono a scampare ad un pericolo, quando ottengono
una carica od una magistratura; per farla breve, si può constatare che la
maggior parte degli uomini viene spinta dalle cose che si trovano a portata di
mano. Queste infatti, proprio perché si fanno maggiormente sentire data la loro
vicinanza, nei momenti buoni rappresentano il più forte incentivo, mentre in
quelli dolorosi incutono maggiore paura. Per questo Paolo prese le mosse dalle
cose più vicine quando parlò ai Corinzi e cercò di abituare i Romani alla
sopportazione.
6. In effetti l’anima debole, quando riceve un torto, non si libera tanto
facilmente dal veleno dell’ira, se sente fare dei discorsi sul regno dei cieli
e le vengono offerte delle speranze a lungo termine; questo invece si verifica,
quando attende il momento di vendicarsi dell’offensore. Paolo, volendo
distruggere il rancore alla radice e svuotare l’ira, ricorda ciò che riesce
maggiormente a consolare l’offeso: senza privarlo dell’onore a lui riservato
nella vita futura, per il momento cerca di farlo incamminare in qualche modo
per la strada della filosofia e di aprirgli la porta della riconciliazione. La
cosa più difiicile è incominciare a realizzare la virtù: dopo quest’inizio, la
fatica non è più tanta.
7. Non si comporta però cosí nostro Signore Gesù Cristo quando parla della
verginità o della tolleranza. Nel primo caso, ricorda il regno dei cieli: «Vi
sono degli eunuchi — dice — che si sono resi tali per il regno dei cieli». E
quando esorta a pregare per i nemici, non parla del danno che l’offensore deve
ricevere, né ricorda i carboni ardenti: lascia che tutte queste cose vengano
dette alle persone piccole e meschine, e nelle sue esortazioni prende le mosse
da pensieri più elevati. Di quali si tratta? «Affinché diveniate — dice —
simili al padre vostro che è nei cieli». Guarda quant’è grande il premio.
Coloro che ascoltavano queste parole erano Pietro, Giacomo, Giovanni e la
rimanente schiera degli apostoli: per questo li attirava ricordando i premi
spirituali. Paolo avrebbe fatto lo stesso, se il suo discorso si fosse rivolto
a simili persone. Poiché però parla ai Corinzi, ancora imperfetti, concede loro
subito il frutto delle loro fatiche, affinché si mettano a praticare la virtù
con maggiore impegno.
8. Per questo anche Dio rinunziò ad annunziare agli Ebrei il regno dei
cieli, ed accordò loro solo i beni terreni. Per le cattive azioni minacciò non
la geenna ma le disgrazie di questa vita, quali la fame, la pestilenza, le
malattie, le guerre, le prigionie ed altre simili. Da questi mali infatti
vengono più trattenuti gli uomini materiali, e questi mali temono maggiormente,
mentre non tengono in nessun conto le cose che non si vedono e che non sono
vicine. Per questo anche Paolo si dilunga di più sugli argomenti che sono
maggiormente in grado di far presa sulla loro rozzezza. Voleva inoltre mostrare
che mentre alcuni degli altri beni ci caricano di fatiche in questa vita e
riservano tutti i premi alla vita futura, la verginità invece, nel momento in
cui viene realizzata, concede una non piccola ricompensa, liberandoci da tante
fatiche e preoccupazioni. Assieme a questi due scopi egli ne raggiunse anche un
terzo. Quale? Il far ritenere la verginità non impossibile, ma ben possibile. A
tale scopo, egli mostra che il matrimonio procura molte più difficoltà. È come
se dicesse a qualcuno: «La verginità ti sembra fonte di pene e di fatiche? Io
ti dico invece che la devi praticare: è cosí facile, che ci procura un numero
di gran lunga inferiore di preoccupazioni rispetto al matrimonio». «Proprio
perché desidero risparmiarvi — egli dice — e non voglio che subiate tormenti,
preferisco che non vi sposiate».
9. «Ma di quali tonnenti si tratta? — mi si potrebbe forse obiettare —. Al
contrario, vediamo che il matrimonio procura un grande rilassamento e molti
piaceri. Innanzitutto, il potere di soddisfare i propri desideri con tutta
tranquillità senza dovere sopportare i violenti assalti della natura
contribuisce non poco alla serenità della vita. In secondo luogo, il resto
della vita non conosce più né abbattimenti né squallore, ed è pieno di
allegria, di risa e di gioia. La tavola è sontuosa, le vesti sono molli, il
letto ancora più molle, i bagni sono continui, i profumi ed i vini non
inferiori ai profumi sono a disposizione, al pari di tante altre cose
dispendiose, di diverso genere: in tal modo essi servono la carne, procurandole
molti piaceri.
L. Il piacere è considerato illegittimo sia nell’Antico che nel Nuovo
Testamento.
1. Innanzitutto, queste cose non sono consentite nel matrimonio, che è
solito procurare soltanto la libertà degli accoppiamenti, e non quella di
godere i piaceri. Ne è testimone il beato Paolo quando dice: «La donna che vive
nella dissolutezza è morta». E se si obietta che queste parole sono state
pronunziate a proposito delle vedove, ascolta ciò che dice alle donne sposate: «Analogamente,
le donne devono essere vestite in modo decente, e adornarsi con ritegno e
temperanza, non con trecce, ori, perle e vesti sfarzose, ma cosí come si addice
alle donne che manifestano la loro religiosità attraverso le buone opere». Non
solo in questo passo, ma anche in altri si può notare la sua grande insistenza
sulla necessità di non ricercare tali cose.
2. Dice infatti: «Se abbiamo di che nutrirci e coprirci, ci contentiamo.
Chi vuole essere ricco, diviene preda di desideri stolti e dannosi, che fanno
precipitare gli uomini nella rovina e nella perdizione». Ma perché parlare di
Paolo, che pronunziava tali parole all’epoca della somma filosofia e
dell’abbondante grazia dello spirito? Ascolta come il profeta Amos attacca
aspramente coloro che si danno ai piaceri: eppure, parlava agli Ebrei ancora
bambini, in un tempo in cui erano consentiti il lusso, lo sfarzo e per così
dire tutte le cose superflue. Dice: «Guai a coloro che vanno verso il giorno
cattivo, che si avvicinano ai falsi sabati fino a toccarli, che dormono su
letti di avorio, che sono dissoluti sui loro giacigli, che mangiano i capretti
del gregge ed i vitelli da latte presi dalle mandrie; che battono le mani al suono
degli strumenti, che bevono il vino filtrato e che si ungono con i profuni più
preziosi: pensano che questi beni siano stabili e non caduchi».
LI. Anche se il piacere fosse permesso, i dolori prodotti dal matrimonio
basterebbero a distruggerlo.
Come ho detto, in primo luogo i piaceri non erano consentiti; ma anche se
non fossero stati vietati e se tutto fosse stato permesso, va ricordato che
altri fattori opposti sono causa di tristezza e di dolore; anzi, sono tanto più
numerosi e più forti dei piaceri, che non è possibile provare questi ultimi
neanche un poco: essi si dileguano completamente.
LII. Del grande male rappresentato dalla gelosia.
1. Dimmi: se un uomo è per natura geloso, o se un pretesto infondato lo fa
divenire preda di questo male, che cosa è più pietoso di quest’anima? Quale
guerra, quale tempesta possiamo paragonare alla sua casa, per ottenere
un’immagine fedele? Tutto gronda di dolori, di sospetti, di discordia e di
confusione. Chi è colpito da tale pazzia non sta meglio degl’indemoniati o di
coloro che sono vittime di una malattia mentale: continuamente scatta e si
slancia, odia tutti e sfoga la sua ira sui presenti anche se non hanno colpa,
si tratti dei servi, dei figli o di qualsiasi altro. Ogni gioia è scacciata, e
tutto è pieno di tristezza, di dolore e di avversione. Rimanga a casa, vada in
piazza o intraprenda un viaggio, fa sempre nascere questo terribile male, che è
peggiore della morte e che eccita ed irrita la sua anima senza lasciarla mai
tranquilla. In effetti, tale malattia è solita produrre non solo la tristezza,
ma anche un’ira intollerabile. Ciascuno di questi mali è sufficiente da solo a
rovinare la sua vittima; quando però tutti insieme la cingono d’assedio e la
stringono continuamente senza permetterle di respirare neanche per un breve
momento, quante morti sarebbero peggiori? Neanche l’estrema povertà, neanche
una malattia inguaribile, neanche il fuoco o il ferro possono essere definiti
mali uguali: soltanto coloro che l’hanno sperimentata lo sanno bene. Quando il
marito si vede costretto a sospettare sempre della donna che ama più di ogni
altra persona, e per la quale darebbe volentieri la propria vita, che cosa è più
in grado di consolarlo?
2. Se deve mangiare e bere, l’uomo geloso pensa che la tavola sia piena di
veleni mortali piuttosto che di vivande; e quando si corica e giace sul letto,
non riesce a stare quieto neanche un momento, ma si agita e si rivolta come se
avesse sotto di sé dei carboni: né la compagnia degli amici, né il pensiero
degli affari, né la paura dei pericoli, né lo smodato piacere né alcun’altra
cosa è in grado di allontanarlo da tale tempesta, che s’impadronisce della sua
anima più di qualsiasi gioia e dolore. Tenendo presente questo, Salomone disse:
«Dura come la morte è la gelosia», e «l’animo di suo marito è pieno di gelosia;
nel giorno del giudizio non la risparmierà: nessuna ricompensa muterà il suo
odio, ed i molti doni non varranno a dissolverlo».
3. Cosí forte è la pazzia prodotta da questa malattia, che neanche il
castigo del colpevole riesce ad eliminare il dolore. Spesso molti mariti, pur
avendo ucciso l’adultero, non riescono ad estirpare l’ira e lo scoraggiamento.
Ci sono amche uomini che, dopo avere ucciso le proprie mogli, si lasciano
consumare dal fuoco della gelosia in misura simile o anche maggiore. Il marito
vive in preda a questi mali, anche quando non c’è nulla di vero; e la moglie
misera e sfortunata deve sopportare dolori ancora più forti di quelli del
coniuge. Quando infatti vede imbestialirsi e diventare nemico più di ogni altro
l’uomo che avrebbe dovuto consolarla da tutti i dolori e da cui avrebbe dovuto
attendersi ogni assistenza, dove potrà più guardare? Dove dovrà fuggire? Dove
potrà trovare la liberazione dai suoi mali, se il porto è coperto e pieno di
un’infinità di scogli?
4. Allora i servi e le serve la trattano in modo più oltraggioso di suo
marito. Questa razza di persone è sempre infida ed ingrata, ma quando può
prendersi una maggiore libertà e vede padroni in discordia tra loro, considera
tale guerra un ottimo pretesto per oltraggiare. In questi momenti, possono
infatti inventare ed immaginare tutto ciò che piace loro senza alcun timore, e
con le loro calunnie accrescono i sospetti. L’anima del marito, una volta
divenuta preda di tale funesta malattia, crede volentieri a tutto, ed aprendo
le orecchie a tutti indifferentemente, non riesce a distinguere i calunniatori
da coloro che non lo sono. Anzi, sembrano dire la verità più coloro che
accrescono i sospetti che coloro che cercano di dissiparli.
5. La moglie deve quindi temere non meno del marito gli schiavi pronti a
fuggire che vivono nella sua casa e le loro mogli, e prendere il loro posto
abbandonando il rango che le è proprio. Quando potrà vivere senza piangere? In
quale notte? In quale giorno? In quale festa? Quando potrà evitare i sospiri, i
lamenti, i gemiti? Continuamente la colpiscono le minacce, le offese e gli
oltraggi sia del marito che ha ricevuto una ferita inunaginaria sia dei servi
miserabili; custodi e spie la sorvegliano, e tutto è pieno di paura e di
tremito. Non solo vengono sorvegliate le sue entrate e le sue uscite, ma
vengono esaminate con molta attenzione anche le sue parole, i suoi sguardi, i
suoi sospiri: in tal caso, o deve rimanere più immobile di una pietra,
sopportare tutto in silenzio e restare sempre inchiodata alla camera nuziale
peggio di un prigioniero; o, se vuole parlare, lamentarsi ed uscire, deve
rendere conto di tutto a questi giudici corrotti — parlo delle ancelle e della
folla dei domestici.
6. Se vuoi, in mezzo a tutte queste disgrazie metti pure le ricchezze
indescrivibili, la sontuosità della mensa, le schiere dei servi, lo splendore
della stirpe, la grande potenza, la grande fama, il lustro degli antenati; non
lasciare nessuna delle cose che sembrano rendere invidiabile questa vita; metti
tutto insieme con attenzione, e raffrontalo con questi tormenti: vedrai che il
piacere prodotto da tali cose non è neanche una parvenza, e si dilegua com’è
naturale che si spenga una scintilla che cade in un vasto mare. Ciò succede
quando è il marito ad essere geloso; quando invece la malattia si trasferisce
alla moglie — e questo accade non di rado — il marito si trova in migliori
condizioni di lei, mentre la maggior parte del dolore si riversa di nuovo sulla
poveretta, che non può fare uso delle stesse armi nei confronti del marito di
cui sospetta. Quale marito potrebbe infatti mai accettare l’ordine della moglie
di rimanere sempre in casa?
7. Quale servo può d’altra parte avere il coraggio di sorvegliare il
padrone, senza essere subito gettato da un precipizio? La moglie non può
consolarsi con questi mezzi, né dare sfogo alla propria ira con le parole: il
marito può forse sopportare questo suo malumore una o due volte, ma se lei
continua sempre ad accusarlo le insegna subito che è meglio sopportare tutto in
silenzio e consumarsi. Questo accade quando c’è un semplice sospetto. Quando
invece il male è reale, nessuno può sottrarre la moglie alle mani del marito
offeso, che, invocando in suo soccorso le leggi, conduce in tribunale la
persona a lei più cara e la fa uccidere. Il marito, al contrario, può sfuggire
alla pena della legge, anche se gli è riservata la condanna celeste, quella di
Dio. Ciò non basta però a consolare la misera, che va necessariamente incontro
ad una morte lenta e pietosa, prodotta dagl’incantesimi e dalle pozioni
approntate dalle adultere. Vi sono poi delle adultere che non hanno bisogno di
ricorrere a questi mezzi insidiosi nei confronti delle loro vittime, perché
queste vengono rapite prima dalla morte, data la veemenza della loro
disperazione. Di conseguenza, anche se tutti gli uomini corrono al matrimonio,
le donne non devono inseguirlo. Non possono dire che la tirannia del desiderio è
troppo forte; d’altra parte, come il nostro discorso ha dimostrato, sono esse a
raccogliere il maggior numero dei mali del matrimonio.
8. «E che? — mi si obietta —. Questa disgrazia tocca a tutti i matrimoni?».
Essa però non resta lontana da ogni matrimonio, mentre si tiene ben lontana da
ogni persona vergine. La donna sposata, anche se non ne è vittima, è sempre
vittima della paura che essa produce: colei che intende convivere con un uomo
non può non soppesare e temere le cose brutte collegate con tale convivenza. La
vergine, al contrario, resta esente non solo dalle disgrazie, ma anche dai sospetti.
«Questo però non si verifica in tutti i matrimoni». Neanch’io lo dico; ma anche
se non capita un male, ce ne sono molti altri, e se si sfugge ad uno, non è
possibile sfuggire a tutti quanti: come, nel caso delle spine che si attaccano
alle vesti quando si attraversa una siepe, se ci si volta per toglierne una si è
punti da molte altre, così nella vita matrimoniale chi sfugge ad un male è
trafitto da un altro, e chi ne evita uno inciampa in un altro; in una parola
non si può trovare un matrimonio in cui manchino completamente i dispiaceri.
LIII. Il matrimonio con una donna ricca non è invidiabile, e provoca più
dolori del matrimonio con una donna povera.
Ma, se vuoi, lasciamo da parte tutti gli aspetti spiacevoli, e prendiamo
ora in esame più da vicino la cosa che nel matrimonio sembra rappresentare la
somma felicità e che spesso molti, anzi tutti si augurano di ottenere. Di che
cosa si tratta? Del prendere in sposa, quando si è poveri, semplici e modesti,
una moglie discendente da una famiglia importante, potente e molto ricca. Ma
questa cosa così invidiabile si rivela in realtà foriera di disgrazie non
minori di quelle dell’altro matrimonio tanto detestato. Le donne sono una razza
portata più di ogni altra all’alterigia ed alla debolezza, e divengono più
facilmente preda di queste malattie. Quando poi hanno a portata di mano un gran
numero di pretesti per manifestare la loro alterigia, nulla più le trattiene:
come la fiamma che si attacca ad una materia, si gonfiano in un modo
indicibile, e sconvolgono ogni ordine, mettendo tutto sottosopra. In tal caso
infatti la moglie non consente al marito di rimanere il capo, ma, spinta dalla
sua presunzione e demenza, lo scaccia da questo posto e lo relega in una
posizione subordinata, che invece spetterebbe a lei: così, è lei a diventare il
capo. Che cosa c’è di peggio di quest’anomalia? Non parlo poi dei rimproveri,
delle offese, dei dispiaceri, cose più insopportabili di ogni altra.
LIV. Se si riesce a sottomettere la moglie ricca, i dispiaceri si fanno
ancora più grandi.
E se si dicesse — l’ho sentito dire a molti, quando capita di fare questi
discorsi: «Mi basta che sia molto ricca; per me, non è un problema
sottometterla ed umiliare la sua presunzione»; se si dicesse questo,
innanzitutto si mostrerebbe d’ignorare che si tratta di un’impresa molto
difficile. In secondo luogo, anche se si riuscisse, il danno non sarebbe lieve.
Il fatto che la moglie viene sottomessa al marito con la costrizione, il timore
e la violenza è molto più penoso e doloroso dell’esercizio di un pieno potere
su di lui. Come mai? Perché questa violenza scaccia ogni amore ed ogni piacere;
e quando non c’è né l’amore né il desiderio amoroso, ed al loro posto
subentrano la paura e la costrizione, che cosa vale più un simile matrimonio?
LV. Sposare un uomo più ricco è un male insopportabile.
Questo accade quando è la moglie ad essere ricca. Se invece la moglie non
ha nulla mentre il marito è ricco, la moglie, invece di essere sposa, diventa
serva, e da donna libera che era si trasforma in schiava: perduta la sicurezza
propria del suo rango, non si trova in una situazione migliore di quella degli
schiavi comprati; e se il marito vuol fare lo sregolato o ubriacarsi o portare
nel suo letto una folla di cortigiane, deve o sopportare tutto e fare buon
viso, o abbandonare la casa. E questa non è la sola cosa brutta: quando il
marito è così, la moglie non è in grado di comandare liberamente né i servi né
le ancelle; vivendo come un’estranea, godendo di cose che non le appartengono,
e coabitando con un padrone più che con un marito, è costretta a fare tutto ed
a soffrire. Qualora poi un uomo volesse sposare una donna di condizione simile
alla sua, la legge della sottomissione rovina ogni uguaglianza, anche se
l’entità del patrimonio spinge la moglie a considerarsi uguale al marito. Che
cosa si può fare di fronte a difficoltà così grandi, che insorgono ad ogni
passo? Non citarmi come esempio i matrimoni — molto pochi e facili a contarsi —
che sfuggono a questi mali: è bene definire le cose non in base alle eccezioni,
ma in base a ciò che capita di regola.
LVI. La donna sposata è costretta a soffrire molti dolori
1. È ben difficile, anzi è impossibile che questi mali si presentino
durante lo stato verginale, mentre è difficile che non capitino durante il
matrimonio. E se nei matrimoni che sembrano felici insorgono così forti
dispiaceri e così gravi disgrazie, che cosa si dovrebbe dire e a proposito dei
matrimoni che, per comune ammissione, sono fonte di dolori? È fatale che la
donna, anche se deve morire una volta sola, non tema la morte di una sola
persona e che non si preoccupi di un’unica vita, pur possedendone una sola:
grande è la sua trepidazione per il marito, per i figli, per le loro mogli e
per i loro figli, e quanto più la radice si divide nei vari rami, tanto più si
moltiplicano le sue ansie. Se a qualcuna di queste persone capita o un danno
economico o una malattia fisica o qualche altro male non voluto, essa deve
affliggersi e lamentarsi non meno delle vittime dirette. Quando tutti i congiunti
muoiono prima di lei, il dolore le diventa insopportabile; quando invece alcuni
restano in vita, mentre altri sono rapiti da morti premature, neanche in questo
si può trovare una vera e propria consolazione.
2. L’ansia per le persone vive che continua a scuotere l’anima non è
inferiore al dolore che prova per i morti ma lo supera, per quanto strano ciò
possa sembrare. Il tempo suole infatti mitigare la tristezza prodotta dalle
morti, mentre le preoccupazioni per i vivi sono destinate a continuare sempre,
e a cessare solo con la morte. Quale vita conduciamo se, non contentandoci dei
nostri dolori, siamo costretti a piangere sulle disgrazie altrui? Spesso molte
donne discendono da genitori illustri, vengono allevate nei più grandi agi e
vengono fatte sposare ad uomini molto potenti; eppure all’improvviso, prima
ancora di potere assaporare questa felicità, al sopraggiungere di una calamità
simile ad una tempesta o ad una burrasca, vanno a fondo e sperimentano gli
orrori del naufragio; dopo aver goduto di un’infinità di beni prima del
matrimonio, una volta sposatesi piombano nell’estrema disgrazia. «Ma questo —
mi si obietta — non suole accadere in tutti i matrimoni né si verifica sempre».
Ed io torno a ripetere: non si può però neanche dire che tutti i matrimoni ne
siano esenti: da una parte, alcune persone fanno diretta esperienza di tali
disgrazie; dall’altra, quelle che sono riuscite ad evitare la prova sono
angustiate dall’attesa. Ogni vergine, invece, rimane al di sopra di ogni prova
e di ogni attesa.
LVII. Dei dolori che colpiscono ogni matrimonio.
1. Ma se vuoi lasciamo stare tutto questo ed esaminiamo ora i mali che la
natura assegna al matrimonio ed ai quali nessuno può sfuggire, lo voglia o no.
Quali sono? I dolori del parto, la generazione ed i figli. Ma riprendiamo il
discorso da un punto più alto, e cerchiamo di capire ciò che avviene prima del
matrimonio, per quanto ci è possibile (queste cose le conosce infatti con
esattezza soltanto chi le ha sperimentate). È giunto il tempo del fidanzamento,
e subito preoccupazioni di vario tipo si affollano nella mente della donna:
l’uomo che sta per sposare può avere dei bassi natali o una cattiva
reputazione, o può essere arrogante, ingannatore, millantatore, insolente,
geloso, meschino, sciocco, malvagio, duro, effeminato. Certo, non è detto che
tutti questi mali debbano colpire tutte le donne che si sposano; ma è fatale
che tutte se ne preoccupino molto. Quando non si conosce ancora l’uomo
assegnato e le speranze sono incerte, l’anima della donna trema piena di timore
di fronte a tutto e pensa a tutti i mali possibili. Chi poi dicesse che essa
potrebbe rallegrarsi pensando ai beni contrari, sappia che la speranza dei beni
non ci consola nella stessa misura in cui ci addolora il timore dei mali. I
beni producono la gioia solo quando poggiano su speranze sicure, mentre i mali,
anche quando vengono soltanto sospettati, subito scompigliano e sconvolgono
l’anima.
2. Come nel caso degli schiavi l’incertezza sui futuri padroni non dà
tregua alle loro anime, così l’anima delle vergini, per tutto il periodo del
fidanzamento, assomiglia ad una nave sbattuta dalla tempesta. Ogni giorno i
loro genitori accolgono o scacciano i pretendenti; il pretendente che ieri ha
vinto può essere oggi vinto da un altro, il quale può a sua volta essere
scacciato da un altro ancora. Accade anche che alla vigilia stessa del
matrimonio quello che era ritenuto lo sposo se ne vada a mani vuote, mentre un
altro a cui non si pensava affatto riceve in sposa la ragazza dai genitori. E
non solo le donne, ma anche gli uomini hanno forti preoccupazioni: mentre sul
conto degli uomini ci si può informare, come ci si può informare sul carattere
o sull’aspetto di una donna che rimane sempre chiusa in casa? Questo accade
all’epoca dell’innamoramento. Quando poi si giunge al matrimonio, l’angoscia
cresce e le paure soverchiano le gioie; la sposa teme di sembrare già dalla
prima sera poco attraente e di gran lunga inferiore alle aspettative del
marito. Essa può sopportare un disprezzo successivo, che subentra
all’ammirazione iniziale; ma se, per così dire, suscita repulsione fin dal
punto di partenza, quando potrà mai essere ammirata?
3. E non dire: «Che cosa succede invece se è bella?». Neanche in questo
caso si libera dalle sue preoccupazioni. Molte donne splendenti nella loro
bellezza fisica non riescono a catturare i loro mariti, che abbandonano per
darsi ad altre inferiori a loro. E anche quando questa preoccupazione svanisce,
ne sopraggiunge un’altra: nuovi dispiaceri insorgono al pagamento della dote, quando
il suocero non la dà volentieri perché sa di dare un deposito a fondo perduto,
e quando lo sposo, pur essendo ansioso di prenderla, si vede costretto ad
essere cauto nelle sue richieste di riscossione; la sposa si vergogna del
ritardo ed arrossisce di fronte al marito, perché ha un padre che è il peggiore
debitore. Ma ora tralascio tutto questo.
4. Anche se questa preoccupazione svanisce, subito subentrano la paura
della sterilità e, in aggiunta, quella di una prole molto numerosa; se nessuna
di queste due eventualità è ancora chiara, le spose fin dall’inizio del
matrimonio sono agitate da entrambi i pensieri. Se la sposa diventa subito
incinta, la gioia si mescola alla paura, perché da quest’ultima nulla nel
matrimonio è disgiunto; si teme che il feto concepito vada distrutto in un
aborto, e che la donna incinta corra l’estremo pericolo. Se invece prima del
concepimento intercorre un lungo periodo di tempo, la donna si perde d’animo,
come se il generare dipendesse da lei. Quando poi giunge il momento del parto,
il ventre, già messo a dura prova per tanto tempo, è colpito e tirato dai
dolori, che da soli bastano ad oscurare tutte le gioie del matrimonio. Oltre a
questo, altri pensieri la turbano. La povera e sfortunata ragazza, pur essendo
torturata da così forti dolori, teme non meno di questi di dare alla luce un
figlio mutilato e storpio in luogo di un figlio integro e sano, o di avere una
femmina invece di un maschio. Quest’angoscia, in effetti, non tormenta in quel
momento le partorienti meno dei dolori del parto: hanno paura dei mariti non
solo nelle cose di cui sono responsabili, ma anche — e in misura non minore —
in quelle in cui sono esenti da qualsiasi responsabilità. Trascurando la
propria sicurezza in un momento di così grave pericolo, si preoccupano di non
far succedere nulla che sia sgradito al marito. E dopo che il bambino è caduto
a terra ed ha emesso il primo vagito, si affacciano altre preoccupazioni,
quelle relative alla sua incolumità ed al suo allevamento.
5. Ed anche se il bambino generato ha una buona natura ed è portato alla
virtù, i genitori temono che gli capiti qualcosa di male, che sia vittima di
una morte prematura, che si lasci prendere da qualche vizio. Non è vero
soltanto che da cattivi si può diventare buoni: anche da buoni si può diventare
vili e cattivi. E se si verifica qualcuno di questi eventi esecrabili, il
dolore che ne deriva è più insopportabile di quello che si sarebbe provato se
la stessa cosa fosse avvenuta all’inizio. Se poi tutte le qualità buone restano
salde, la paura di un cambiamento continua sempre a scuotere l’animo dei
genitori e ad eliminare una buona parte del piacere. «Ma non a tutte le persone
sposate capita di avere figli». Ammetti dunque un altro motivo di tristezza?
Quando gli sposi sono presi da differenti dolori e preoccupazioni, ci siano o
no i figli, o siano essi buoni o cattivi, come possiamo chiamare piacevole la
vita matrimoniale?
6. Se poi gli sposi vivono d’amore e d’accordo, si affaccia il timore che
la morte venga a recidere il piacere. È più esatto dire che in tal caso non si
ha a che fare con una semplice paura: il male non consiste soltanto nella sua
attesa, ma fatalmente si realizza modo concreto. Nessuno è stato mai in grado
d’indicare due persone sposate che siano morte entrambe nello stesso giorno:
non essendo ciò possibile, resta solo l’obbligo di sopportare una vita molto più
dolorosa della morte, si sia vissuti insieme per molto tempo o per poco. Chi ha
infatti sperimentato una lunga convivenza, riceve un dolore in proporzione più
grande, giacché la lunga dimestichezza rende insopportabile la separazione e
chi, quando il suo desiderio è ancora veemente, si vede privato dell’amore che
non ha potuto gustare e di cui non ha ancora potuto saziarsi, piange per questo
ancora più dell’altro: per cause opposte, entrambi sono vittime di uguali
dolori.
7. E perché ricordare le separazioni che nel frattempo si verificano, le
lunghe assenze, le ansie che le accompagnano, e le malattie? «Ma che cosa ha a
che fare questo con il matrimonio?» mi si obietta. Spesso, molte donne si
ammalano soprattutto per colpa sua. Quando sono vittime di violenza e d’ira, si
produce in loro una febbre dovuta ora alla rabbia, ora allo scoraggiamento. Se
invece, quando il marito è presente, non solo non soffrono nulla di tutto
questo, ma godono delle sue continue gentilezze, quando egli si allontana
incappano negli stessi dolori. Ma anche se lasciassimo andare tutto questo e
non muovessimo più accuse al matrimonio, non potremmo scagionarlo anche di
un’altra colpa. Di quale? Il matrimonio non permette all’uomo sano di stare
meglio del malato, ma lo fa piombare nello stesso scoraggiamento che prova
l’uomo allettato,
LVIII. Il matrimonio, anche se sfugge ad ogni dolore, non ha in sé nulla
di grande
Vuoi che, prescindendo da tutto ciò, supponiamo nel nostro
ragionamento l’impossibile ed ammettiamo l’esistenza di un matrimonio in cui
sono presenti tutti i beni, vale a dire la prole numerosa e buona, la
ricchezza, una moglie saggia, bella ed intelligente, la concordia ed una lunga
vecchiaia? Aggiungiamo pure il lustro della stirpe e la grande potenza, e
supponiamo che un matrimonio simile non venga disturbato dal timore di un
cambiamento, la malattia che è propria della nostra natura; sia bandito ogni
motivo di tristezza, ogni pretesto che possa dar adito a preoccupazioni ed
angustie; nessuna ragione, nessuna morte prematura sciolga tale matrimonio;
tutti e due i coniugi muoiano nello stesso giorno; oppure — e questa sembra la
più grande felicità — i figli restino gli eredi, ed accompagnino alla tomba i
genitori morti dopo una lunga vecchiaia. Ma qual è la conclusione? Quale
guadagno traggono i coniugi da questo piacere, nel momento in cui partono per
l’altra vita? Il lasciare molti figli, l’avere goduto di una bella moglie,
delle ricchezze e di tutte le altre cose che ho appena enumerato, l’avere
trascorso una lunga vecchiaia, di quale aiuto potranno mai essere di fronte a
quel tribunale, nella sfera delle cose eterne e vere? Di nessun aiuto. Tutto
questo non è forse un’ombra ed un sogno? Che cosa accade dunque, se mio marito è
portato a cadere in basso ed io voglio essere continente? Devi seguirlo. La
catena che il matrimonio ti ha messo intorno ti trascina e ti tira tuo malgrado
verso colui che fin dall’inizio è legato assieme a te; se opponi resistenza e
cerchi di romperla, non solo non ti liberi dai suoi legami, ma vai incontro
alla più grave punizione.
LIX. La verginità è una cosa facile
La vergine non è costretta a prendere informazioni sul suo sposo, né teme
d’essere vittima di un inganno. Lo sposo è infatti Dio, non un uomo; e il
Signore, non un compagno di schiavitù: tanto grande è la differenza tra i due
sposi. Esamina anche le condizioni dell’unione. I doni nuziali offerti a tale
fidanzata non sono rappresentati dagli schiavi, dalle misure di terreno e da un
certo numero di talenti d’oro, ma dai cieli e dai beni celesti. Per di più, la
donna sposata teme la morte oltre che per altri motivi anche perché la separa
dal consorte. La vergine, invece, desidera la morte e considera la vita come un
peso, ansiosa com’è di vedere il suo sposo «faccia a faccia» e di godere della
sua gloria.
LX. La verginità non ha bisogno di nessuna delle cose che non dipendono da
noi
1. Neanche una vita da miseria può danneggiare la vergine, come accade
invece nel matrimonio; anzi, essa rende ancora più gradita allo sposo colei che
la sopporta di buon grado. Lo stesso vale per i bassi natali, per l’assenza di
una bellezza fisica risplendente e per le altre cose dello stesso genere. Ma perché
parlarne? Neanche il non essere libera nuoce al suo fidanzamento: le basta
mostrare un’anima bella e raggiungere il primo posto. In tale stato, non c’è
motivo di temere la gelosia o di provare una dolorosa invidia nei confronti di
un’altra donna che si è unita ad un uomo più illustre. Nessun uomo è infatti
simile o uguale al suo sposo, nessuno gli si avvicina neanche un po’; nel
matrimonio, invece, la donna sposata, anche se ha un marito molto ricco e
potente, può sempre trovarne un’altra con un marito di condizione molto più
alta.
2. L’essere superati da persone più importanti non diminuisce in lieve
misura il piacere che si prova quando si superano gl’inferiori. Ma il grande
sfarzo negli ori, nelle vesti, nella tavola e nelle altre comodità basta da solo
ad incantare l’anima e ad attrarla. Ma quante donne ne godono? La maggior parte
uomini vive nella povertà, nelle ristrettezze e nelle fatiche. Se ci sono donne
che possono godere di tali beni, sono molto poche, e si possono facilmente
contare; esse agiscono però contro il volere di Dio. Come abbiamo mostrato in
precedenza nel nostro discorso, a nessuno è consentito vivere in questi
piaceri.
LXI. Il portare addosso gli ori produce più paura che piacere
Ma supponiamo pure nel nostro ragionamento che questo lusso sia permesso,
e che né il profeta né Paolo si dichiarino contrari alle donne che amano troppo
lo sfarzo. Ma di quale utilità sono i molti ori? Non producono altro che
invidie, preoccupazioni e timori non indifferenti. Le donne che li possiedono
si agitano non solo quando li ripongono nello scrigno al sopraggiungere della
notte, ma anche quando li indossano: quando è giorno, provano la stessa ansia,
o piuttosto un’ansia ancora più forte, giacché i bagni e le chiese sono
frequentate da donne che li rubano. Ma anche non tenendo conto di queste
ultime, accade spesso che le donne che portano gli ori, spinte e premute dalla
folla, non si accorgono che qualche oggetto d’oro è caduto. Così pure, molte
perdono non solo questi ori, ma collane di valore ancora maggiore, fatte di
pietre preziose che, strappate, finiscono con il cadere. Ma ammettiamo pure che
non sussista neanche questa paura, e che tale preoccupazione venga bandita.
LXII. Il portare addosso gli ori nuoce alla bellezza e mette in risalto la
bruttezza
1. Si dice: «Altri vedono ed ammirano». Ammirano però non la donna che
indossa gli ori, ma gli oggetti indossati, e spesso la disprezzano per colpa
loro, come se se ne fosse adornata senza esserne degna. Se infatti la donna è
bella, gli ori danneggiano la bellezza naturale, perché i molti ornamenti non
le permettono di mostrarsi così com’è, e ne eliminano la maggior parte; se
invece è brutta e di aspetto sgradevole, essi la fanno apparire ancora più
repellente: la bruttezza, quando appare da sola, si rivela unicamente per
quello che è; ma quando si riveste di pietre risplendenti e di altri materiali
belli, il suo aspetto sgradevole risalta ancora di più.
2. Il colore nero di un corpo è fatto risaltare maggiormente dalla luce di
una perla posta su di esso, che risplende come nell’oscurità; allo stesso modo,
gli ornamenti delle vesti, non permettendo all’impressione visiva di affrontare
da sola il giudizio degli spettatori, peggiorano la deformità dell’aspetto: di
fronte a quella bellezza artificiale e straordinaria, la sconfitta diviene
ancora più netta. L’oro disseminato sulle vesti, la varietà dei lavori eseguiti
in questo campo, e tutti gli altri ornamenti – al pari di un atleta valente, in
buone condizioni e vigoroso, che respinge un avversario coperto di scabbia,
brutto ed affamato – annullano lo splendore del viso di colei che l’indossa ed
attirano su di sé l’attenzione degli spettatori: di conseguenza, mentre la
donna viene derisa, essi vengono ammirati oltre misura.
LXIII. Quali sono gli ornamenti e qual è la bellezza della verginità
1. Gli ornamenti della verginità non sono però di tale natura. Non
danneggiano colei che l’indossa, giacché non sono corporei, ma appartengono
interamente all’anima. Per questo, anche se la vergine è brutta, subito ne trasformano
la bruttezza, rivestendola di una bellezza straordinaria; se invece essa è
bella e risplendente, ne accrescono lo splendore. Le anime delle vergini non
sono infatti adornate dalle pietre, dagli ori, dalle vesti sfarzose, dai vari e
ricchi ricami colorati, o da qualcun’altra di queste cose caduche, ma, in loro
vece, dai digiuni, dalle veglie sacre, dalla mitezza, dalla bontà, dalla povertà,
dal coraggio, dall’umiltà, dalla perseveranza – in una parola, dal disprezzo di
tutte le cose della vita presente.
2. L’occhio della vergine è così bello ed incantevole che fa innamorare,
in luogo degli uomini, le potenze incorporee ed il loro padrone; è così puro e
limpido, che è in grado di vedere in luogo delle bellezze corporee quelle
incorporee, e così mite e tranquillo che non si adira mai e non si rivolta
neppure contro chi le fa del male e le procura continuamente dei dolori; al
contrario, guarda costoro in modo dolce e soave. Tale modestia la riveste, che
anche gl’intemperanti, guardandola bene, si vergognano, arrossiscono e mitigano
la propria follia. Come l’ancella che serve una padrona modesta deve assumere
anch’essa questo carattere anche se non lo vuole, così anche la carne della
persona che pratica tale filosofia deve uniformarsi ai suoi movimenti ed
impulsi. Lo sguardo, la lingua, l’aspetto, l’andatura ed in una parola tutto
ricevono un’impronta dall’ordine interiore. Come un profumo prezioso, anche se è
racchiuso in un vaso, impregna l’aria della propria fragranza ed inebria non
solo quelli che si trovano in casa o che sono vicini, ma anche quelli che sono
fuori; allo stesso modo la fragranza dell’anima della vergine, diffondendosi
nei sensi, rivela la virtù interiore, mette a tutti i cavalli le auree redini
dell’ordine ed assicura il perfetto ritmo di ciascuno di loro; non permette
alla lingua di pronunziare nessuna parola stonata e disarmonica, né all’occhio
di guardare senza pudore e con sospetto, né all’orecchio di ascoltare qualche
canto sconveniente. La vergine bada anche ai piedi, in modo da avere non
un’andatura disordinata e molle, ma un passo privo di affettazione e di
ricercatezza. Eliminato ogni ornamento dalle vesti, raccomanda continuamente al
volto di non distendersi nelle risa, di non sorridere neanche di nascosto, di
mostrare al contrario sempre una fronte vereconda e seria, e di essere sempre
pronto al pianto e mai al riso.
LXIV. Ciò che soffriamo per Cristo, anche se è fastidioso, è fonte di
piacere
Quando senti parlare di pianto, non nutrire dei cupi sospetti: queste
lacrime procurano un piacere che neanche il riso di questo mondo riesce a
procurare. Se non ci credi, ascolta le parole di Luca: «Frustati, gli apostoli
si ritirarono dal cospetto del sinedrio pieni di gioia». Eppure, non è questa
la natura della frusta: di solito, essa non procura né piacere né gioia, ma
dolore e sofferenza. Ma se la natura della frusta non riesce a procurare gioia,
la fede in Cristo è invece così forte, che domina la natura delle cose. Se è
vero che le fruste producono piacere a causa di Cristo, perché ti meravigli,
quando le lacrime producono lo stesso effetto, sempre a causa di Cristo? Per
questo Egli chiama «giogo soave e carico leggero» quella che prima aveva
chiamato «strada stretta e piena di tormenti». Per sua natura, la cosa è
dolorosa ma diventa leggera grazie alla scelta compiuta da chi realizza la virtù
ed alla buona speranza. Per questo è possibile vedere che chi ha scelto la
strada stretta e piena di tormenti in luogo di quella larga e pianeggiante vi
cammina con maggiore impegno, non perché non venga tormentato, ma perché è
superiore ai tormenti e non ne risente, com’è invece naturale che risentano gli
altri. Anche la vita verginale ha i suoi tormenti; ma quando li paragoniamo a
quelli del matrimonio, non possiamo più dare loro questo appellativo.
LXV. Tutte le fatiche richieste dalla verginità non equivalgono ai soli
dolori del parto, conseguenza del matrimonio
Dimmi: la vergine, in tutta la sua vita, sopporta forse quello che si può
dire ogni anno deve sopportare la donna sposata, vittima dei dolori e dei
gemiti causati dal parto? Così forte è la tirannia di questo dolore, che anche
la Scrittura divina, quando vuole alludere alla prigionia, alla fame, alla
pestilenza ed ai mali più insopportabili, chiama tutto questo «dolori del parto».
Anche Dio li ha imposti alla donna come un castigo ed una maledizione: non
parlo della generazione pura e semplice, ma della generazione in queste
condizioni, di quella cioè accompagnata da fatiche e da dolori. «Nei dolori – è
detto infatti – genererai i tuoi figli». La vergine, invece, si trova al di
sopra di questi dolori e di questa maledizione. Chi ha abolito la maledizione
della legge, assieme ad essa ha abolito anche quest’altra maledizione.
LXVI. È più piacevole camminare che lasciarsi portare in giro dai muli
1. «Ma è piacevole farsi portare in giro dai muli per la piazza». Si
tratta soltanto di un lusso inutile, privo di qualsiasi piacere. Come la
tenebra non è migliore della luce, come l’essere rinchiusi non è preferibile
all’essere liberi, come l’aver bisogno di molte cose non si può anteporre al
non aver bisogno di niente, così non si trova meglio neanche colei che non usa
i propri piedi. Tralascio tutti i fastidi che quest’abitudine costringe a
sopportare. Questa donna non può uscire da casa quando vuole, ma spesso è
costretta a rimanervi, anche se una ragione seria la spinge ad andar fuori: si
trova nello stesso stato dei mendicanti che, avendo i piedi mutilati, non hanno
modo di spostarsi. Se per caso il marito tiene impegnati i muli, ecco affacciarsi
i meschini egoismi, le liti, i lunghi silenzi; se invece è lei ad agire così
senza pensare alle conseguenze, finisce con il rivolgere la propria rabbia
contro se stessa per aver trascurato il marito, e con l’essere continuamente
rosa dal rimorso prodotto dalla sua insolenza. Come sarebbe stato meglio per
lei se avesse usato i piedi – per questo Dio ce li ha fatti – evitando tutti
questi fastidi, piuttosto che esporsi agl’inevitabili effetti di così forti
crucci ed egoismi per amore della comodità! Non sono però solo questi i motivi
che la trattengono in casa: accade la stessa cosa se i muli hanno male ai piedi
– si tratti di uno solo di essi o di tutti e due. Anche quando vengono condotti
al pascolo – e questo capita ogni anno e per più giorni – è costretta a
rimanere a casa come una prigioniera: non può uscire neanche se la chiama fuori
un bisogno impellente.
2. Chi poi dicesse che in tal modo essa evita gl’incontri con la folla e
non è costretta a subire gli sguardi di ogni suo conoscente e ad arrossire,
mostra d’ignorare totalmente ciò che difende la natura femminile e ciò che
invece la ricopre di vergogna. A queste due cose sono estranee sia il mostrarsi
che il nascondersi, giacché il secondo effetto è prodotto dalla sfacciataggine
interiore che non è in grado di tenere a freno l’anima, mentre il primo è
prodotto dalla saggezza e dal pudore. Per questo molte donne che pure non
conoscono la prigionia di cui si è parlato e che camminano in piazza in mezzo
alla folla non solo non si attirano il biasimo dei detrattori, ma grazie alla
loro saggezza finiscono con l’avere molti ammiratori: attraverso il loro
aspetto, il loro incedere, le loro vesti poco ricercate, fanno trapelare il
raggio risplendente della loro compostezza interiore. Al contrario, non poche
di quelle che se ne stanno sedute in casa si fanno una cattiva fama. La donna
che rimane chiusa, più di quella che appare in pubblico, può infatti mostrarsi
a chi vuole vederla in tutta la sua sfacciataggine e sfrontatezza.
LXVII. È fastidioso avere molte serve
«Ma forse il gran numero di ancelle fa piacere». Questo è il piacere
peggiore, giacché comporta un numero di preoccupazioni uguale a quello delle
serve: quando una di loro si ammala e muore, l’agitazione e lo scoraggiamento
sono inevitabili. Ma forse sono sopportabili questi inconvenienti ed altri
ancora, come ad esempio il darsi ogni giorno da fare per reprimere la pigrizia,
eliminare le frodi, far cessare ogni forma d’inciviltà, correggere tutti gli
altri vizi. Ma la cosa più brutta – suole capitare specialmente nel caso in cui
le serve sono molte – si verifica quando nella loro schiera se ne trova una
bella. È inevitabile che questo si verifichi quando se ne ha un gran numero,
giacché i ricchi vogliono che le ancelle di loro proprietà siano non solo
numerose, ma anche belle. Quando una di loro risplende tra le altre, sia che
catturi il padrone con un incantesimo, sia che non riesca a produrre nulla in
più di un’ammirazione nei propri riguardi, la padrona si addolora ugualmente,
vedendosi superata, se non sul piano dell’amore, per lo meno su quello della
bellezza fisica e dell’ammirazione. Quando le cose che nel matrimonio sembrano
splendide ed invidiabili comportano tanti tormenti, che cosa si può dire a
proposito di quelle dolorose?
LXVIII. Della tranquillità offerta dalla verginità
1. La vergine, al contrario, non sopporta nulla di tutto ciò. La sua
modesta casa non conosce agitazione, ogni grido è bandito da essa: come in un
porto calmo il silenzio domina su tutto ciò che vi si trova dentro. Un’altra
tranquillità, superiore allo stesso silenzio, permea poi la sua anima, giacché
essa non ha a che fare con nessuna cosa umana, ma discorre continuamente con
Dio e tiene sempre fisso il suo sguardo su di Lui. Chi potrebbe misurare questo
piacere? Quale discorso sarebbe mai in grado di esprimere la gioia dell’anima
che si trova in questo stato? Nessuno. Coloro che gioiscono del Signore sono i
soli a conoscere la grandezza di tale gioia e a rendersi conto di come essa
superi di gran lunga ogni possibile raffronto.
2. «Ma la vista di una gran quantità d’argento procura sempre un gran
piacere agli occhi». Quant’è meglio invece guardare il cielo e raccogliere da
esso un piacere molto più grande! Come l’oro è molto più risplendente e
luccicante dello stagno e del piombo, così lo è il cielo rispetto all’oro,
all’argento e ad ogni altra materia. E mentre la contemplazione del cielo non
causa preoccupazioni, l’altra contemplazione è legata a molte ansie, che
guastano sempre i nostri desideri. Non vuoi guardare il cielo? Almeno, potresti
guardare l’argento esposto in piazza. Come dice il beato Paolo, «vi parlo per
farvi vergognare», giacché vi mostrate così sensibili all’amore per le
ricchezze. Non so che cosa dire. A tal proposito, mi prende un grande imbarazzo:
non riesco a capire come mai quasi tutto il genere umano non consideri fonte di
piacere la possibilità di un godimento facile e rilassato, e provi al contrario
piacere soprattutto nelle preoccupazioni, nelle tensioni e nelle inquietudini.
3. Come mai l’argento esposto in piazza non li rallegra come quello che si
trova in casa? Eppure il primo è più risplendente e lascia l’anima libera da
ogni inquietudine. «Perché – si risponde – il primo non è mio, mentre il
secondo lo è». Ciò che produce il piacere è dunque la cupidigia, non la natura
dell’argento: se così fosse, anche l’argento esposto in piazza dovrebbe
procurare un piacere simile. Se poi tu volessi richiamarti all’uso, allora ti
farei notare che il vetro è molto migliore: potrebbero dirtelo gli stessi
ricchi, che fanno fabbricare per lo più i loro bicchieri con quest’altro
materiale. Se poi il loro orgoglio li costringe a far fare anche dei bicchieri
d’argento, fanno prima mettere dentro il vetro, e poi fanno rivestire d’argento
la parte esterna, mostrando in tal modo che, quando si beve, il vetro è più
gradevole e più adatto, mentre l’argento serve solo all’orgoglio ed alla
millanteria. E che cosa significa la frase «Mio e non mio»? Se l’esamino bene,
vedo che si tratta solo di semplici parole.
4. Molti durante la loro vita non riescono ad impedire che l’argento
sfugga loro di mano. Chi riesce a conservarlo fino alla fine, al momento della
morte non ne è più padrone, lo voglia o no. Si può constatare che non solo nel
caso dell’argento e dell’oro, ma anche nel caso dei bagni, dei giardini e di
tutto ciò che riguarda la casa l’idea del «mio e non mio» non è che una
semplice parola. Mentre tutti possono usare gli oggetti preziosi, i loro
presenti proprietari hanno in più di chi non li possiede soltanto le
preoccupazioni che essi producono. Gli uni si limitano a goderseli; gli altri,
pur preoccupandosi tanto, raccolgono gli stessi frutti che i primi raccolgono
senza darsi alcuna pena.
LXIX. Le mense sontuose sono fonti di molti disturbi
1. Chi poi ammira il gran lusso della tavola, di cui sono prova la
moltitudine delle carni tagliate, i vini troppo dispendiosi, i manicaretti
ricercati, le arti dei camerieri, dei pasticcieri e dei cuochi, e la folla dei
parassiti e dei convitati, sappia che i ricchi, in tali circostanze, non stanno
meglio dei loro cuochi. Come infatti questi ultimi hanno paura dei loro
padroni, così essi hanno paura degl’invitati, nel timore che qualcuno di essi
critichi le cose che sono state preparate per loro con tanta fatica e tante
spese. In questo i padroni sono uguali ai servi; sotto un altro punto di vista,
però, i servi si trovano avvantaggiati rispetto a loro: i padroni devono
infatti temere non solo i critici, ma anche gl’invidiosi. Da tali banchetti
nascono spesso delle invidie che cessano solo dopo aver fatto correre i
pericoli più gravi. «Ma il potersi cibare spesso di molte cose è piacevole».
Per carità!
2. Quale piacere possiamo mai provare, quando da questi lussi spuntano il
mal di testa, le dilatazioni del ventre, le depressioni psichiche, i capogiri,
le vertigini, gli annebbiamenti della vista ed altri disturbi ancora più
strani? Sarebbe augurabile che i danni prodotti da queste sregolatezze si
fermassero ai disturbi di un solo giorno. Invece, proprio da tali mense si originano
per lo più le malattie più incurabili: la gotta, la tisi, l’epilessia, la
paralisi, le convulsioni, assediano il corpo fino all’ultimo respiro. Potremmo
indicare un piacere capace di controbilanciare questi mali? E quale regime
austero non saremmo disposti a seguire, pur di liberarci da essi?
LXX. La semplicità è più utile e più piacevole del lusso
1. La semplicità, invece, è ben diversa: estranea a tutti questi
inconvenienti, produce solo salute e benessere. Che essa è preferibile al
lusso, lo puoi constatare tu stesso: innanzitutto, resti sano e non sei
disturbato da quelle malattie, ciascuna delle quali basta da sola a spegnere e
a distruggere le fondamenta di ogni piacere; in secondo luogo, puoi gustare
meglio gli stessi cibi. Come mai? Perché il piacere è prodotto dal desiderio, e
a sua volta il desiderio è prodotto non dalla sazietà e dalla pienezza, ma dal
bisogno e dall’indigenza. Queste due cose non si trovano mai nei banchetti dei
ricchi, mentre compaiono sempre nei pasti dei poveri: meglio di qualsiasi
cameriere e cuoco, fanno gocciolare in abbondanza il miele sui cibi messi sulla
tavola. I ricchi mangiano senza aver fame, bevono senza aver sete, e si mettono
a dormire prima che sopravvenga un forte bisogno di sonno. I poveri, invece, prima
devono aver bisogno di tutte le varie cose, e solo successivamente le possono
gustare: è proprio questo, più di ogni altra cosa, ad accrescere il piacere.
2. Perché mai, dimmi, Salomone chiama dolce il sonno del servo, dicendo: «Dolce
è il sonno per il servo, sia che mangi molto sia che mangi poco»? Forse perché
il suo letto è molle? Ma per lo più dormono su di un pavimento o su di un
pagliericcio. Forse per la libertà di cui godono? Ma non possono disporre
neanche di un istante. Forse per la loro vita facile? Non c’è un momento in cui
non siano battuti dalle pene e dalle miserie. Che cosa rende allora dolce il
loro sonno? Le fatiche, ed il poter prendere sonno solo dopo averne sentito il
bisogno. I ricchi invece, se la notte non li sorprende immersi nell’ubriachezza,
sono condannati a rimanere sempre svegli, e a rivoltarsi e ad agitarsi sui loro
molli letti.
LXXI. Il lusso guasta anche l’anima
Si potrebbe fare anche un’altra descrizione dei fastidi, dei danni e
dell’indecenza del lusso, enumerando le malattie che imprime sull’anima, di
gran lunga più numerose e pericolose di quelle corporee. Esso, in effetti,
rende molli, deboli, insolenti, millantatori, lascivi, violenti, intemperanti,
irascibili, crudeli, ignobili, cupidi, servili, inetti in quasi tutte le cose
utili e necessarie; tutti gli effetti opposti sono invece prodotti dalla
frugalità. Ma ora dobbiamo passare ad un altro argomento: fatta questa semplice
aggiunta, ritorniamo alle parole dell’apostolo. Se le cose che sembrano
invidiabili sono così piene di mali e fanno cadere sull’anima e sul corpo una
così fitta pioggia di malattie, come possiamo parlare delle cose dolorose? Mi
riferisco alla paura dei magistrati, ai movimenti popolari, alle insidie dei
delatori e degl’invidiosi, mali tutti che assediano soprattutto i ricchi e che
anche le donne sono destinate a sperimentare in maggior misura, data la loro
incapacità di sopportare virilmente le relative vicissitudini.
LXXII. Il lusso, oltre a causare gli altri mali di cui si è parlato, rende
intollerabili le vicissitudini della vita
Ma perché parlare delle donne? Anche gli uomini diventano infatti infelice
preda di tali vicissitudini. Chi vive nella semplicità non teme i cambiamenti;
chi invece si consuma nella vita molle e dissoluta, se per caso o per fatalità
piomba nell’indigenza, muore prima ancora di poter sopportare tale cambiamento,
non essendovi né abituato né preparato. Per questo il beato Paolo dice «Costoro
soffriranno i tormenti della carne; io cerco di risparmiarvi», ed aggiunge
subito dopo «Il tempo che resta è breve».
LXXIII. Il momento presente non si addice al matrimonio
1. «Ma cos’ha a che fare tutto questo con il matrimonio?» qualcuno
potrebbe forse chiedere. Ha molto a che fare. Se infatti il matrimonio è
richiuso nella vita presente, mentre in quella futura gli uomini «né sposano né
vengono sposati»; se il tempo presente volge al termine e la resurrezione è
alle porte, questo non è il momento dei matrimoni e dei beni materiali, ma
dell’indigenza e di tutta quella rimanente saggezza che ci può giovare nell’al
di là. La vergine, finché resta a casa con la madre, si dà molto pensiero dei
suoi giuochi infantili; una volta messo lo scrigno nella sua stanza, tiene con
sè la chiave che racchiude tutti i giocattoli che vi sono riposti, e ne può
disporre pienamente: si preoccupa di custodire quei piccoli e stupidi oggetti
nella stessa misura in cui i sovrintendenti delle grandi case si preoccupano di
amministrarle. Quando però si fidanza ed il momento delle nozze la costringe a
lasciare la casa paterna, allora, staccatasi da quei vili ed umili balocchi,
non può non pensare al governo della casa, al gran numero dei beni e degli
schiavi, alla cura del marito, ed a tutte le altre incombenze più gravi ancora
di queste, che pure sono numerose. Così dobbiamo fare anche noi: quando siamo
condotti alla vita perfetta, degna degli uomini adulti, dobbiamo lasciare tutte
le cose di questa terra – veri e propri giocattoli infantili – e pensare al
cielo, ed allo splendore e alla gloria della vita celeste.
2. In effetti, siamo uniti ad uno sposo che esige di essere amato da noi a
tal punto, che non dobbiamo esitare a separarci per amor suo non solo dalle
cose di questa terra, piccola e di scarso valore, ma anche dalla vita stessa,
qualora fosse necessario. Poiché dunque dobbiamo passare all’altra vita,
stacchiamoci dai pensieri meschini. Se dovessimo lasciare una povera casa per
trasferirci in una reggia, non penseremmo agli oggetti d’argilla, ai mobili, ed
alle altre povere suppellettili domestiche. Neanche ora dobbiamo quindi
preoccuparci delle cose terrene; il momento presente ci chiama ormai in cielo,
come dice Paolo scrivendo ai Romani: «La salvezza è adesso più vicina di quanto
non lo fosse nel momento in cui ricevemmo la fede: la notte è avanzata, il giorno
è prossimo». Altrove dice: «Il tempo che ci resta qui è breve: chi ha la moglie
si comporti come se non l’avesse «.
3. Perché dunque dovrebbero aver bisogno del matrimonio coloro che non ne
usufruiranno più e che si troveranno nelle stesse condizioni di chi non è
sposato? E perché dovrebbero pensare alle ricchezze, ai beni, alle cose della
vita materiale, se il loro io è ormai fuori stagione ed inopportuno? Se chi è
in procinto di presentarsi ad un tribunale terreno per rendere conto dei suoi
misfatti, quando il giorno fatidico si avvicina non pensa più non solo alla
moglie ma neppure a mangiare ed a bere e concentra il proprio pensiero
unicamente sulla propria difesa, a maggior ragione noi, quando siamo sul punto
di presentarci non ad un tribunale terreno, ma alla tribuna celeste per rendere
conto delle nostre parole, delle nostre azioni e dei nostri pensieri, dobbiamo
staccarci da tutte le gioie e da tutti i dolori relativi alle cose presenti e
preoccuparci solo di quel terribile giorno. «Chi viene da me – dice il Signore
– ma non è capace di odiare il padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli,
le sorelle e la propria anima, non può essere mio discepolo. E non può essere
mio discepolo neanche chi non carica su di sè la propria croce e non mi segue».
4. E tu continui a perdere il tuo tempo desiderando tua moglie e pensando
alle risa, alla dissolutezza ed al lusso? «Il Signore è vicino». Tu ti
preoccupi e ti assilli per le ricchezze? «Il regno dei cieli è prossimo». Tu
badi alla casa, al lusso ed agli altri piaceri? «Passa l’aspetto di questo
mondo». Perché allora ti tormenti per le cose di quaggiù che non rimangono ma
si consumano, e trascuri invece quelle che restano e sono durature? Non ci
saranno più né matrimoni, né parti, né piaceri, né accoppiamenti, né ricchezze
abbondanti, né cure dei beni materiali, né nutrimenti, né vesti, né
coltivazioni, né viaggi per mare, né arti, né costruzioni, né città, né case:
ci saranno invece un’altra condizione ed un altro modo di vivere. Tutte le cose
di quaggiù scompariranno tra breve. Questo significa la frase: «Passa l’aspetto
di questo mondo». Perché dunque mostriamo tanto zelo nel preoccuparci di cose
da cui spesso ci separiamo prima di sera, come se dovessimo rimanere quaggiù
per tutta l’eternità? Perché scegliamo questa vita penosa, mentre Cristo ci
chiama a una vita tranquilla? «Voglio – dice infatti l’apostolo – che non
abbiate preoccupazioni. Chi non è sposato pensa alle cose del Signore».
LXXIV. Come mai Paolo, pur volendoci liberi da ansie, ci comanda di
preoccuparci
1. Come puoi allora volerci liberi da ansie, se poi ci getti in un’altra
preoccupazione? Perché questa non è una vera preoccupazione, così come il
provare tormenti per amore di Cristo non è un vero tormento: non perché la
natura delle cose cambi, ma perché la volontà di chi sopporta con gioia questi
dolori riesce a dominare anche la natura. È giusto dire che prova ansie chi si
preoccupa di cose di cui non potrà godere a lungo, e spesso neanche per poco
tempo; ma è anche del tutto logico mettere nella schiera di coloro che se ne
restano tranquilli chi dalle proprie preoccupazioni raccoglie dei frutti
maggiori. Ma a parte questo, la differenza tra la prima e la seconda
preoccupazione è così grande, che la seconda, paragonata alla prima, non può più
essere ritenuta tale: tanto più leggera e sopportabile è rispetto all’altra.
Tutto questo l’abbiamo dimostrato nel nostro discorso precedente. «L’uomo
celibe si preoccupa delle cose del Signore, l’uomo sposato di quelle del mondo»;
ma quest’ultimo passa, mentre il Signore resta.
2. Non basta forse questo a dimostrare il valore della verginità? La
differenza che c’è tra Dio ed il mondo corrisponde alla superiorità della
seconda preoccupazione rispetto alla prima. Come puoi dunque permettere il
matrimonio, se esso c’inchioda alle preoccupazioni e ci allontana dalle cose
dello spirito? «Per questo – risponde l’apostolo – ho detto «chi ha la moglie
si comporti come se non l’avesse»; chi è già legato o sta per legarsi renda più
lento questo legame in un altro modo». Giacché non puoi romperlo una volta che
te ne sei cinto, rendilo almeno più sopportabile. Se vogliamo, possiamo
eliminare tutte le cose superflue ed evitare di aggiungere alle preoccupazioni
insite nella natura del matrimonio altre maggiori, prodotte dalla nostra
indolenza.
LXXV. Com’è possibile non avere la moglie pur avendola
1. Chi poi volesse sapere con maggiore chiarezza che cosa significa la
frase «Non avere la moglie pur avendola», pensi allo stato in cui si trovano i «crocifissi»
che non l’hanno. Qual à la loro condizione? Non sono costretti a comprare un
gran numero di ancelle, di oggetti d’oro e di collane, case splendide e grandi,
e tante misure di terreno: lasciate tutte queste cose, si preoccupano di
un’unica veste e del nutrimento. Si può giungere a praticare questa filosofia
anche se si ha una moglie. Le parole dette prima «Non negatevi l’uno all’altro»
riguardano solo l’unione carnale: in questo caso specifico l’apostolo prescrive
che l’uno deve seguire l’altro, e non lascia nessuno dei due sposi padrone di sè;
ma quando si tratta della pratica della filosofia riguardante le vesti, il modo
di vita e tutte le altre cose, i coniugi non sono più soggetti l’uno all’altro.
I mariti possono, anche se le mogli non vogliono, eliminare ogni lusso e
scacciare la folla delle preoccupazioni che li sommerge; ed analogamente le
mogli, da parte loro, se non vogliono non possono essere costrette a truccarsi,
ad essere vanagloriose ed a preoccuparsi delle cose superflue. È giusto che sia
così. Il desiderio carnale è infatti naturale: per questo è degno di molta
commiserazione, e per questo nessuno dei due sposi può negarsi all’altro contro
la sua volontà. Al contrario, il desiderio del lusso, della servitù superflua,
delle preoccupazioni inutili non proviene dalla natura, ma nasce dall’indolenza
e dalla grande tracotanza. Per questo l’apostolo non costringe le persone
sposate ad essere soggette l’una all’altra in tali casi, come avviene invece
nell’altro.
2. Non abbiamo la moglie pur avendola quando non diamo ascolto ai pensieri
superflui delle donne, dettati dalla loro leziosità e dalla loro mollezza, e
quando ci limitiamo ad accogliere solo quella preoccupazione aggiuntiva che
riguarda l’anima della donna che ci è stata affidata e che ha scelto una vita
basata sulla saggezza e la semplicità. Che intende dire proprio questo,
l’apostolo lo mostra nelle parole seguenti: «Chi piange si comporti come chi
non piange, chi gioisce dei beni come chi non gioisce». Chi non gioisce non si
preoccupa dei beni, e chi non piange non sopporta a malincuore la povertà né
respinge la frugalità. Questo significa «non avere la moglie pur avendola»,
questo significa fare uso del mondo senza abusarne.
3. «Chi è sposato si preoccupa delle cose del mondo». Se dunque in
entrambi i casi ci sono le preoccupazioni – nel primo però sono vane ed
inutili, anzi dolorose, giacché, come dice l’apostolo, «costoro soffriranno i
tormenti nella carne», mentre nel secondo producono dei beni ineffabili – perché
non scegliamo questo secondo tipo di ansie, che non solo ci procurano così
belle e numerose ricompense, ma sono anche meno forti delle altre? A che cosa
pensa la donna non sposata? Forse alle ricchezze, ai servi, agli
amministratori, ai terreni ed al resto? Deve forse sorvegliare i cuochi, i
tessitori e la rimanente servitù? Per carità! Non pensa a nulla di tutto ciò ma
soltanto ad edificare la propria anima e ad adornare il suo santo tempio non
con trecce, ori o perle, non con cosmetici e belletti, non con altre cose
fastidiose e misere, ma con la santità di corpo e di spirito.
4. «La donna sposata – dice Paolo – si preoccupa invece di piacere al
marito». Sagace com’è, non si mette ad esaminare i particolari, e non ricorda
le sofferenze fisiche e psichiche a cui vanno incontro le mogli per piacere ai
mariti – il loro corpo è torturato, imbellettato e tormentato con altre
punizioni, mentre la loro anima è riempita di bassezze, adulazioni, ipocrisie,
meschinità e pensieri superflui ed inutili. Alludendo a tutto ciò con una sola
parola, lascia riflettere sull’argomento la coscienza degli ascoltatori; e dopo
aver mostrato in tal modo l’eccellenza della verginità ed averla sollevata fimo
al cielo, passa di nuovo a parlare della liceità del matrimonio, sempre nel
timore che qualcuno scambi la verginità per un precetto. Non si contenta quindi
delle esortazioni fatte in precedenza: dopo aver detto «Non ho un ordine del
Signore» e «La vergine se si sposa non pecca», aggiunge qui «Non perché voglia
gettare su di voi un laccio».
LXXVI. Il «laccio» non è rappresentato dalla verginità, ma dalla nostra
mancanza di entusiasmo
1. A tal proposito, ci si potrebbe chiedere a buon diritto come mai
l’apostolo dica qui «Non perché voglia gettare su di voi un laccio»: eppure, in
precedenza aveva chiamato la verginità «liberazione dai legami», aveva detto
che ci consigliava per il nostro bene per evitarci tormenti e preoccupazioni e
per risparmiarci, ed aveva in tal modo mostrato che questa pratica era leggera
e sopportabile. Di che cosa si tratta? A dire il vero egli ha chiamato «laccio»
non la verginità – non sia mai! – ma la scelta di questo bene compiuta sotto la
spinta della violenza e della costrizione. In effetti, le cose stanno proprio
così. Tutto ciò che si accetta sotto la spinta della violenza e contro la
propria volontà, anche se è molto leggero, diventa la cosa più insopportabile e
soffoca la nostra anima più di un laccio. Per questo Paolo ha detto «Non perché
voglia gettare su di voi un laccio». Queste parole significano: vi ho enumerato
e mostrato tutti i beni della verginità; pur tuttavia, dopo aver fatto questo,
lascio a voi la scelta e non voglio condurvi alla virtù contro la vostra volontà.
Vi ho dato questi consigli non perché volessi tormentarvi, ma perché la vostra
bella assiduità non venisse distrutta dalle occupazioni materiali.
2. Osserva anche qui la sagacia di Paolo: alla preghiera aggiunge di nuovo
l’esortazione, e attraverso la concessione fa trapelare il consiglio. Le sue
parole «Non vi costringo ma vi esorto», e le altre che ha aggiunto «A causa del
decoro e dell’assiduità», mostrano il carattere meraviglioso della verginità,
ed i grandi vantaggi che da essa si ricavano nella vita conforme ai voleri di
Dio. La donna non può essere assidua se è prigioniera di preoccupazioni
materiali e se si lascia trascinare da ogni parte, perché in tal caso il suo
impegno ed il suo tempo libero si disperdono in più direzioni: verso il marito,
verso la cura della casa e verso tutte le cose che il matrimonio è solito
trascinare con sè.
LXXVII. La donna che si affanna per le cose materiali non può essere
vergine
Che cosa dice dunque Paolo quando scaccia dal coro delle vergini quella
vergine che – non sia mai! – ha varie occupazioni ed è alle prese con i
problemi materiali? Per essere vergini non basta infatti non sposarsi: occorre
anche la purezza dell’anima, e per purezza io intendo non solo la lontananza
dai desideri cattivi e turpi, dai belletti e dalle occupazioni, ma anche
l’assenza di pensieri relativi a cose materiali. Se ciò non si verifica, di
quale utilità può essere la purezza fisica? Come non c’è nulla di più
vergognoso di un soldato che getta le armi e passa il suo tempo nelle bettole,
cosi non c’è nulla di più indecoroso delle vergini prigioniere di
preoccupazioni materiali. Anche le cinque vergini avevano le lampade, ed
avevano praticato la verginità, ma non ne avevano ricavato alcun frutto: le
porte si chiusero, ed esse rimasero fuori e perirono. La verginità è bella
proprio perché elimina ogni motivo di preoccupazioni superflue e perché
permette di consacrare tutto il tempo libero alle opere gradite a Dio: se
questo non si verifica, diventa di gran lunga peggiore del matrimonio, giacché
ricopre di spine l’anima e soffoca tutti i semi puri e celesti,
LXXVIII. Perché Paolo non condanna aspramente colui che pensa di
comportarsi in modo sconveniente nei riguardi della figlia vergine
1. «Chi – dice Paolo – pensa di comportarsi in modo non conveniente nei
riguardi della figlia vergine se lascia passare l’età giusta per il matrimonio,
faccia pure ciò che vuole, se così deve essere; non pecca: ci si sposi pure».
Perché dici «faccia pure ciò che vuole»? Perché non correggi quest’opinione
sbagliata, ma autorizzi il matrimonio? Perché non hai detto «Se pensa di
comportarsi in modo sconveniente nei riguardi della figlia vergine è un povero
ed un infelice, giacché ritiene biasimevole una cosa degna di ammirazione»?
Perché – risponderebbe Paolo – si tratta di anime di uomini molto deboli, che
ancora si trascinano per terra: non è possibile fare accostare subito al
discorso sulla verginità le anime che si trovano in questo stato. Chi infatti è
attaccato in modo così passionale alle cose del mondo ed ammira la vita
presente a tal punto da ritenere vergognoso, nonostante tali esortazioni, ciò
che invece è degno dei cieli e vicino al tipo di vita degli angeli, come
potrebbe tollerare un consiglio in tal senso? E perché ci si deve meravigliare
del fatto che Paolo si comporta così a proposito di una cosa consentita, quando
adotta lo stesso atteggiamento nei confronti di cose proibite e contrarie alla
legge?
2. Faccio un esempio: la scrupolosa osservanza dell’alimentazione, in base
alla quale alcuni cibi si possono accettare, mentre altri vanno respinti, era
una debolezza giudaica. Pur tuttavia, c’era tra i Romani chi ne era ancora
vittima. Eppure, Paolo non solo non rimprovera severamente costoro, ma fa di più:
lasciati andare i peccatori, critica chi vuole reprimere questa pratica, dicendo:
«Perché giudichi il tuo fratello?». Non si comporta però così quando scrive ai
Colossesi: con molta libertà li rimprovera e li istruisce, dicendo «Che nessuno
vi giudichi in base ai cibi ed alle bevande». Ed aggiunge: «Se siete morti in
Cristo per quanto riguarda gli elementi del mondo, perché decretate ancora,
come se foste ancora vivi nel mondo: non prendere, non gustare, non toccare?
Tutto ciò è destinato a distruggersi con l’uso».
3. Perché dunque si comporta così? Perché i Colossesi erano già forti,
mentre i Romani avevano bisogno di molta comprensione. Egli aspettava che la
fede si rafforzasse nelle loro anime: temeva che, se fosse andato a strappare
il loglio prima del momento giusto, anche le piante del retto insegnamento
sarebbero state estirpate dalla radice. Per questo non li riprende aspramente,
anche se non li lascia andare senza avvertirli: li rimprovera, ma in modo
velato e nascosto, nel momento in cui critica altri. Le parole «Il fatto che
stia in piedi o cada, riguarda il suo Signore « sembrano infatti chiudere la
bocca ai detrattori, ma in realtà mordono l’anima dell’interessato, giacché
mostrano che così si comportano non le persone sicure che stanno bene in piedi,
ma quelle che ancora vacillano, che non sanno stare dritte e che rischiano di
cadere.
4. Anche nel nostro caso Paolo osserva la stessa regola a causa della
grande debolezza di colui che si vergogna della verginità. Non gli si rivolge
apertamente, ma lodando chi sa conservare vergine la propria figlia gli assesta
un forte colpo. Che cosa dice? «Chi resta saldo nel suo cuore «. Queste parole
sono state dette per porre in risalto il contrasto con colui che si lascia
portare in giro con troppa facilità ed a caso, e che non sa camminare con passo
sicuro né rimanere fermo coraggiosamente. Osserva quindi come Paolo, accortosi
che le sue parole riescono a far presa sull’anima dell’interlocutore, cerchi di
temperarle adducendo un motivo che non merita biasimo. Dopo aver detto «Chi
resta saldo nel suo cuore», aggiunge «non essendo sottoposto a costrizioni ed
avendo piena libertà». Eppure, sarebbe stato più logico dire: «Chi resta saldo
e non considera la verità una vergogna». Ma queste parole sarebbero state
troppo forti. Per questo ne usa al loro posto altre, cercando di consolare
l’interlocutore e dandogli la possibilità di ricorrere a quest’altro motivo.
Impedire la verginità quando si è sotto costrizione non è così grave come
impedirla per un senso di vergogna: la prima eventualità dipende da un’anima
debole e misera, la seconda da un’anima depravata, che non è in grado di
giudicare rettamente la natura delle cose.
5. Ma non era ancora giusto il momento di usare parole troppo severe, che
pure sarebbero state giuste, giacché neanche quando si è sottoposti ad una
costrizione è lecito frapporre ostacoli alla figlia che ha deciso di rimanere
vergine: occorre, al contrario, opporsi nobilmente a tutto ciò che mira ad
annullare questo bell’impulso. Ascolta ciò che dice a tal proposito Cristo: «Chi
ama il padre e la madre più di me non è degno di me». Quando facciamo una cosa
gradita a Dio, chi ci vuole ostacolare va considerato un nemico, sia egli il
padre, la madre o chiunque altro. Ma Paolo, che doveva ancora sostenere il peso
dell’imperfezione degli ascoltatori, ha scritto le parole: «Chi resta saldo
senza essere sottoposto a costrizioni». Non si è però fermato ad esse, anche se
le frasi «senza essere sottoposto a costrizioni» ed «avendo piena libertà»
significano la stessa cosa. Allungando il discorso ed abbondando nelle
concessioni, cerca di consolare le anime semplici e mediocri; per di più,
aggiunge un’altra condizione: «Chi giura nel suo cuore». Non è infatti
sufficiente essere soltanto liberi, né si è pienamente responsabili solo grazie
a questa libertà: la buona azione si verifica quando si decide e si giudica.
Quindi, per fugare il rispetto che la sua grande condiscendenza annulli la
differenza tra i due stati, egli la ricorda di nuovo, anche se timidamente: Di
conseguenza, chi fa sposare la figlia agisce bene, e chi non la fa sposare agisce
ancora meglio. Qui, sempre per lo stesso motivo, non indica la misura di questo
è meglio; ma se vuoi rendertene conto, ascolta le parole di Cristo: «Non
sposano né vengono sposati, ma sono come gli angeli in cielo». Vedi qual è la
differenza, e come la verginità, quand’è vera, eleva l’essere mortale?
LXXIX. I seguaci di Elia non differivano in nulla dagli angeli; fu la
verginità a renderli tali
1. In che cosa, dimmi, differivamo dagli angeli Elia, Eliseo e Giovanni,
questi sinceri amanti della verginità? In nulla, a parte il fatto di essere
legati alla natura mortale. Se però si esaminano bene gli altri aspetti, si
vede che non erano affatto inferiori a loro; e quello che sembra uno
svantaggio, torna a loro grande lode. Considera infatti quanto coraggio e
quanta saggezza abbia richiesto loro – che pure vivevano sulla terra ed erano
soggetti alle necessità della natura mortale – il raggiungimento della virtù
angelica. Che fu proprio la verginità a renderli tali, risulta evidente dalla
loro vita: se avessero avuto moglie e figli non avrebbero potuto abitare con
tanta facilità nel deserto, né disprezzare le loro case e le altre comodità
della vita. Staccati da tutti questi legami, vivevamo sulla terra come se si
trovassero in cielo. Non avevano bisogno di muri, di tetti, di letti, di
tavole, e di nessun’altra di queste cose: il loro tetto era il cielo, il loro
letto la terra, la loro tavola il deserto.
2. La sterilità del deserto, che agli altri uomini sembra causa di fame,
per questi santi era fonte di una grande abbondanza: non avevano bisogno né di
viti, né di torchi, né di campi coltivati, né di campi mietuti. Abbondanti e
dolci bevande erano fornite dalle fonti, dai fiumi e dagli stagni; per quanto
riguardava poi la tavola, al primo di loro un angelo ne apparecchiò una
meravigliosa, straordinaria e più sontuosa di quelle a cui sono abituati gli
uomini: «Un unico pane – è detto – è sufficiente per una carestia di quaranta
giorni. Il secondo fu spesso nutrito, mentre operava dei miracoli, dalla grazia
dello spirito, che non nutrì solo lui, ma anche altri tramite lui. E Giovanni,
che era più di un profeta ed il più grande degli uomini nati da una donna, non
aveva neppure e bisogno di un nutrimento umano: non il grano, o il vino, o
l’olio, ma le cavallette ed il miele selvatico conservavano la vita del suo
corpo. Vedi la forza della verginità? Essa ha messo in condizione di
comportarsi come se non avessero più il corpo, come se avessero già raggiunto
il cielo, come se fossero già immortali, degli uomini che erano ancora legati
al sangue ed alla carne, che camminavano ancora per terra, e che erano ancora
soggetti alle necessità della natura mortale.
LXXX. In che cosa consistono il decoro e assiduità
1. Tutto era superfluo per loro: non solo le cose veramente superflue
quali il lusso, le ricchezze, la potenza, la gloria e tutta la schiera delle
chimere, ma anche le cose che sembrano necessarie, quali le case, le città e le
arti. In questo consiste l’essere «decorosi ed assidui», in questo consiste la
virtù della verginità. Sono certo cose ammirevoli e degne di molte corone
l’avere la meglio sulla furia dei desideri ed il saper frenare l’anima
impazzita; ma la verginità diventa veramente ammirevole quando le si accompagna
una vita di questo tipo, perché da sola essa è debole e non basta a salvare chi
la possiede. Lo potrebbero testimoniare le donne che, pur praticando ancor oggi
la verginità, sono così lontane da Elia, Eliseo e Giovanni quanto lo è la terra
dal cielo.
2. Come, se si eliminano il decoro e l’assiduità, si recidono anche i
nervi della verginità, allo stesso modo, se la si possiede insieme alla
migliore condotta di vita, si possiedono anche la radice e la fonte dei beni.
Come la terra grassa e feconda nutre la radice, così la migliore condotta di
vita nutre i frutti della verginità: per meglio dire, la vita «crocifissa» è la
radice ed il frutto della verginità. Fu essa infatti ad ungere per la corsa
meravigliosa quelle persone generose, recidendo tutti i loro legami e
mettendole in condizione di volare verso il cielo con piedi agili e leggeri,
come se fossero degli esseri alati. Se non si deve pensare né alla moglie né ai
figli, la povertà è molto facile; essa avvicina al cielo e libera non solo
dalle paure, dalle preoccupazioni e dai pericoli, ma anche da tutte le altre
difficoltà
LXXXI. Della grande bellezza della povertà
1. Chi non ha nulla disprezza tutto come se possedesse tutto, ed ostenta
una grande sicurezza nei confronti dei magistrati, dei principi ed anche di
colui che è cinto di un diadema. Chi disprezza le ricchezze, proseguendo per la
sua strada, giunge facilmente a disprezzare anche la morte. Elevatosi al di
sopra di queste cose, parla a tutti con grande sicurezza, senza aver paura di
nessuno e senza tremare. Chi invece si occupa delle ricchezze, è schiavo non
solo di esse, ma anche della gloria, degli onori, della vita presente ed in una
parola di tutte le cose materiali. Per questo Paolo chiama l’amore per le
ricchezze «radice di tutti i mali». La verginità è pero in grado di essiccare
questa radice e di piantarne in noi un’altra – la migliore – che fa germogliare
tutti i beni: la libertà, la sicurezza, il coraggio, lo zelo ardente, il caldo
amore per le cose celesti, il disprezzo per tutte le cose terrene. Così si realizzano
«il decoro e assiduità».
LXXXII. Critiche mosse a coloro che affermano che chi pratica la verginità
si augura di poter andare nel seno di Abramo
1. Ma qual è il sapiente discorso che fanno molti? «Il patriarca Abramo –
si dice – aveva moglie, figli, beni, greggi e mandrie; ciò nonostante, sia
Giovanni battista che Giovanni evangelista – che erano entrambi vergini –, sia
Paolo che Pietro – che rifulgevano per la loro continenza – si auguravano di
poter andare nel suo seno». Ma chi ti ha detto questo, o mio caro? Quale
profeta? Quale evangelista? «Cristo in persona – mi si risponde –. Vista
infatti la grande fede del centurione, Cristo disse: «E molti verranno
dall’oriente e dall’occidente, e si sdraieranno con Abramo, Isacco e Giacobbe».
Anche Lazzaro è visto dal ricco nell’atto di godere assieme a lui». Ma cos’ha a
che fare tutto questo con Paolo, Pietro e Giovanni? Paolo e Giovanni non erano
Lazzaro, né «i molti che verranno dall’oriente e dall’occidente» rappresentano
il coro degli apostoli. Il vostro discorso è quindi superfluo e vano.
2. Se invece vuoi conoscere esattamente i premi degli apostoli, ascolta le
parole di chi li assegna: «Quando il figlio dell’uomo siederà sul trono della
sua gloria, anche voi che mi avete seguito sederete su dodici troni, per
giudicare le dodici tribù d’Israele». Qui non si parla affatto né di Abramo, né
di suo figlio, né del figlio di suo figlio, né del seno che li accoglierà, ma
di una dignità molto più grande: essi sederanno a giudicare i loro discendenti.
La differenza non risulta solo da questo, ma anche dal fatto che molti
otterranno ciò che ha ottenuto Abramo: «molti – dice il Signore – verranno
dall’oriente e dall’occidente e si sederanno con Abramo, Isacco e Giacobbe»;
nessuno invece prenderà posto sui troni, con la sola eccezione del coro dei
santi apostoli.
3. Dimmi: pensate ancora ai greggi, alle mandrie, ai matrimoni ed ai
figli? Perché non dovremmo – mi si risponderebbe – se molti di coloro che sono
rimasti vergini, dopo avere tanto faticato, si augurano di giungere lì?». Ed io
ricorderò una cosa ancora più importante: molti di coloro che sono rimasti
vergini non giungeranno né nel seno di Abramo né in una sede inferiore, ma
nella Geenna, come stanno a dimostrare le vergini chiuse fuori della camera
nuziale. Ma allora la verginità non è uguale, o addirittura inferiore al
matrimonio? Il tuo esempio la rende inferiore. Questo solo infatti rimane da
sospettare in base al vostro discorso, se è vero che Abramo, che pure era
sposato, ora riposa e gode, mentre chi è rimasto vergine si trova nella Geenna.
Ma le cose non stanno affatto così: la verginità non solo non è peggiore, ma è
di gran lunga migliore del matrimonio. Come mai? Perché non fu il matrimonio a
rendere cosi virtuoso Abramo, ne la verginità a perdere quelle sciagurate
vergini: le virtù dell’anima fecero rifulgere il patriarca, mentre la vita
viziosa consegnò al fuoco le vergini. Abramo infatti, pur vivendo nel
matrimonio, si preoccupava di realizzare i pregi propri della verginità, vale a
dure il decoro e l’assiduità.
4. Le vergini invece, pur avendo scelto la verginità, caddero nel vortice
della vita e nelle preoccupazioni proprie del matrimonio. «Che cosa ci può
dunque impedire – mi si obietta – di salvare l’assiduità anche ora, rimanendo
sposati ed avendo i figli, i beni e tutte le altre cose?». Innanzi tutto,
nessuno è ora come Abramo, e non gli si avvicina neanche un po’. Egli infatti
pur essendo ricco, disprezzava i beni più dei poveri, e pur avendo una moglie
sapeva dominare i piaceri più delle persone vergini; mentre quest’ultime sono
ogni giorno bruciate dal desiderio, egli spense la fiamma e non si legò a
nessuna affezione: non solo lasciò la concubina, ma la scacciò anche dalla sua
casa, per eliminare ogni motivo di rissa e di discordia. Ora non sarebbe facile
trovare qualcosa di simile.
LXXXIII. A noi non viene proposto lo stesso metro di virtù che era stato
proposto agli uomini del Vecchio Testamento
1. Ma a parte questo, ripeto ciò che avevo detto al principio: non ci è
richiesto lo stesso metro di virtù che veniva richiesto ai patriarchi. Ora
infatti non si può essere perfetti se non si vende tutto e se non si rinunzia a
tutto – non solo ai beni ed alla casa, ma anche alla propria anima; in quei
tempi, invece, non si conoscevano ancora esempi di una moralità così severa. «E
allora? – mi si chiede –. Adesso conduciamo una vita più severa di quella del
patriarca?». Lo dovremmo e ci è stato ordinato, ma non la conduciamo, e per
questo siamo molto inferiori a quel giusto: che a noi vengano richieste prove
più difficili, è evidente a tutti. Per questo la Scrittura non esprime la sua
ammirazione per Noè in modo assoluto, ma con un’aggiunta limitativa. Dice
infatti: «Noè, che era giusto e perfetto nella sua generazione, piaceva a Dio».
Non dice semplicemente «perfetto», ma aggiunge «in quel periodo»: molti sono i
tipi di perfezione che si determinano a seconda delle differenti epoche, e con
il passare del tempo ciò che prima era perfetto diventa imperfetto.
2. Faccio un esempio: allora la perfezione consisteva nel vivere secondo
la legge. «Chi mette in pratica le prescrizioni – è detto – vivrà in esse».
Cristo però, una volta giunto tra noi, ha mostrato che questa perfezione era in
realtà imperfetta. Dice infatti: «Se la vostra giustizia non supera quella
degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli». Allora soltanto
l’omicidio era ritenuto un misfatto; adesso, l’ira e le offese possono da sole
mandare nella Geenna. Allora era punito solo l’adulterio; ora, neanche lo
sguardo cupido gettato su di una donna resta impunito. Allora era considerato
proveniente dal Maligno solo lo spergiuro; adesso, è considerato tale anche il
giuramento. «Ciò che si aggiunge – dice il Signore – proviene dal Maligno».
Allora, agli uomini era richiesto solo di riamare chi li amava; adesso, questa
cosa così importante ed ammirevole appare così imperfetta, che noi, anche dopo
averla realizzata, non possediamo nulla in più dei pubblicani.
LXXXIV. È giusto che per gli stessi atti virtuosi a noi ed agli uomini
dell’Antico Testamento non venga accordata la stessa ricompensa
1. Perché mai dunque per gli stessi atti virtuosi non viene accordata a
noi ed agli uomini dell’Antico Testamento la stessa ricompensa, e perché noi,
se vogliamo ottenere lo stesso trattamento che è riservato loro, dobbiamo dar
prova di una virtù più grande? Perché ora si riversa su di noi in abbondanza la
grazia dello spirito, e perché grande è il dono rappresentato dalla venuta di
Cristo, che da bambini che eravamo ci ha resi uomini perfetti. Quando i nostri
figli arrivano all’adolescenza, noi pretendiamo da loro degli atti virtuosi
molto più impegnativi: una volta che sono divenuti adulti, non ammiriamo più
allo stesso modo gli atti che lodavamo all’epoca della loro prima infanzia, ma
ingiungiamo loro di dar prova di altre virtù, d’importanza ben maggiore. Allo
stesso modo, Dio ai primi tempi non pretese dei grandi atti virtuosi dalla
natura umana, perché era ancora bambina Dopo avere fatto ascoltare agli uomini
i profeti e gli apostoli ed aver concesso loro la grazia dello spirito, Egli
accrebbe però l’importanza delle azioni virtuose da compiere: era giusto,
giacché assegnò anche dei premi maggiori e delle ricompense molto più fulgide A
chi realizza queste virtù non sono infatti riservate la terra e le cose della
terra, ma il cielo ed i beni che superano ogni capacità di comprensione.
2. Non è dunque assurdo, dopo che si è divenuti uomini, continuare a
rimanere piccoli come prima? Allora la natura umana era lacerata nel suo intimo
e vittima di una guerra implacabile. Spiegando questa situazione, Paolo così
parlò: «Vedo nelle mie membra un’altra legge che combatte contro la legge della
mia mente e che mi cattura con la legge del peccato che si trova nelle mie
membra». Ma ora le cose non stanno più così. «Ciò che era impossibile alla
legge perché era debole a causa della carne, Dio l’ha reso possibile mandando a
causa del peccato il proprio figlio rivestito di una carne simile a quella del
peccato e condannando il peccato della carne». Ringraziando Dio di questo,
Paolo disse: «O me misero, chi mi libererà da questo corpo di morte? Rendo
grazie a Dio tramite Gesù Cristo».
3. La punizione che ci tocca è quindi giusta: pur essendo liberi, non
vogliamo correre come le persone legate; ma neanche se corressimo come loro
potremmo sfuggire alla punizione. Chi infatti gode di una pace più sicura deve
innalzare dei trofei molto più grandi e splendenti di quelli che può innalzare
chi è tanto oppresso dalla guerra. Se ci volgiamo verso le ricchezze, il lusso,
le donne e la cura degli affari, quando mai potremo diventare uomini, quando
mai potremo vivere secondo lo spirito, quando mai potremo pensare alle cose del
Signore? Forse quando ce ne andremo via di qui? Allora però non sarà più il
momento delle fatiche e delle gare, ma delle corone e dei castighi. Allora
anche la vergine se non avrà l’olio nella sua lampada, non potrà farselo dare
dalle altre vergini, e dovrà rimanere fuori; e chi si presenterà con indosso un
vestito sudicio, non potrà uscire per cambiarlo, ma sarà gettato nel fuoco
della Geenna: anche se invocherà Abramo, non otterrà nulla. Quando il giorno
del giudizio è giunto, quando la tribuna è pronta, quando il giudice è già
seduto, quando il fiume di fiamme già scorre ed ha luogo l’esame delle nostre
azioni, non ci è più consentito di deporre i nostri peccati, ma siamo, volenti
o nolenti, trascinati al castigo che essi meritano. Nessuno potrà più
intercedere per noi, neanche chi possiede la stessa sicurezza di quei grandi e
straordinari uomini di allora, neanche un Noè, un Giobbe o un Daniele, neanche
chi prega per i propri figli e le proprie figlie: sarà tutto inutile.
4. I peccatori dovranno essere puniti in eterno, così come i virtuosi
dovranno essere onorati in eterno. Che non ci sarà fine né per i premi né per i
castighi l’ha mostrato Cristo, là dove ha detto che sia la vita che la
punizione saranno eterne. Quando accoglierà quelli alla sua destra e condannerà
quelli alla sua sinistra, Egli aggiungerà: «Questi ultimi andranno al castigo
eterno, mentre i giusti andranno alla vita eterna». Dobbiamo quindi sforzarci
mentre siamo ancora qui: chi ha la moglie si comporti come se non l’avesse , e
chi non l’ha veramente pratichi assieme alla verginità tutte le altre virtù;
solo così non avremo modo di lamentarci inutilmente dopo la nostra dipartita da
qui.