Marc Ouellet
A questo punto della nostra
riflessione sull’identità personale del vescovo come figlio di Dio
investito d’una missione pastorale, mi sembra importante trattare della
realtà del suo celibato apostolico. La disciplina del celibato nella
Chiesa latina esprime la lunga fedeltà della Chiesa alla volontà del
Signore di scegliere quelli ch’egli vuole per «essere con lui» (cfr. Marco,
3, 14) in un rapporto di amicizia che fonda il ministero apostolico.
Ciò risulta chiaramente dal dialogo di Gesù con Pietro dopo la sua
resurrezione: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu? (...) Pasci i miei
agnelli» (Giovanni 21, 15).
Il celibato dei sacerdoti, come
quello dei vescovi, è messo oggigiorno in discussione con crescente
virulenza a causa degli abusi sessuali commessi da chierici, anche su
minori, degli abusi denunciati con forza e resi pubblici, che generano
sospetti generalizzati contro il clero. La tradizione sempre viva e
importante del celibato nella Chiesa ne risulta sminuita e anche posta
in questione.
Contestata in modo ricorrente
attraverso i secoli, questa tradizione risale nondimeno alle origini
apostoliche, e i sommi pontefici della nostra epoca l’hanno sempre
riconfermata.
La tradizione ecclesiastica del
celibato e della continenza dei chierici non è sorta come una novità
all’inizio del IV secolo, ma piuttosto come la conferma disciplinare di
una tradizione, sia in Oriente che in Occidente, che risale fino agli
Apostoli (cfr. C. Cochini, Origines apostoliques du célibat sacerdotal,
Le Sycomore, 1981; H. Crouzel, «Le célibat et la continence
ecclésiastique dans l’Église primitive: leurs motivations», dans J.
Coppens, Sacerdoce et célibat, Gembloux, 1971). Quando nel 306,
il concilio di Elvira, in Spagna, stabilisce che i sacerdoti devono
vivere obbligatoriamente la continenza perfetta, occorre comprendere che
questa esigenza della Chiesa dei primi secoli include sia il celibato
sia l’interdizione a risposarsi, come anche la continenza perfetta per
quelli che sono già sposati (cfr. C. Cochini, ibidem; A.-M.
Stickler, «L’évolution de la discipline du célibat dans l’Église en
Occident de la fin du l’âge patristique au concile de Trente», dans J.
Coppens, ibidem; H. Crouzel, ibidem; R. Gryson, Les origines du célibat ecclésiastique. Du premier au septième siècle, Gembloux, 1970).
Anche se le rivoluzioni
contemporanee nel campo della sessualità e delle comunicazioni hanno
reso più difficile la pratica della castità nel celibato, ciò non toglie
che questa forma di vita «apostolica», sull’esempio di Cristo,
testimonia con forza che la Parola escatologica di Dio è entrata nella
storia umana e che il suo impatto ha dato luogo a nuovi stili di vita e a
nuove istituzioni. Il celibato apostolico del veda Dio con il suo
popolo non è solo un ideale, ma anche una realtà. Una realtà nuziale di
altro ordine rispetto al matrimonio, ma che racchiude una felicità reale
e una gioia senza pari. All’origine del celibato apostolico del vescovo
e della verginità consacrata c’è dunque lo stesso fondamento: la Parola
escatologica di Dio all’umanità, il Cristo Sposo (cfr. Efesini 5, 27) che cerca e ottiene in cambio un dono totale da parte della Chiesa-Sposa.
La differenza fra le due forme
di consacrazione è specificata dal carisma proprio di ognuna. Il
celibato apostolico del vescovo e dei suoi sacerdoti è associato al
carisma ministeriale di convocazione, di evangelizzazione e di
santificazione. La verginità consacrata in tutte le sue altre forme
incarna la risposta carismatica radicale e totale della Chiesa-Sposa.
Al di là delle ragioni pratiche di
disponibilità e di servizio, il celibato del vescovo si può veramente
capire solo a partire da questo contesto nuziale e sacramentale
d’Alleanza fra Cristo e la Chiesa. Il vescovo certifica con il suo
celibato che Dio è Amore e che si aspetta dalla sua creatura Amore per
Amore. Di più, egli è come coinvolto nello slancio sponsale di
Cristo-Sposo che ha dato il suo corpo e il suo sangue in nutrimento
affinché il mondo abbia la vita (cfr. Giovanni 6, 51). Così la
proclamazione della Parola di Dio, compiuta «nella carne» e nel
ministero del vescovo, genera l’uomo alla vita nuova nello Spirito,
ossia alla comunione trinitaria vissuta sacramentalmente nel Corpo della
Chiesa. «Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza
alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo
Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti,
che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in
tutti» (Efesini 4, 4-6).
Prendiamo coscienza del fatto
che il celibato apostolico non è un’imposizione arbitraria della Chiesa,
ma piuttosto una testimonianza di amore, in armonia profonda con il
ministero episcopale e sacerdotale. Conviene perfettamente alla natura
escatologica del nostro ministero. Vissuto nello Spirito e senza
compensazioni, meglio situato nel quadro di un’ecclesiologia nuziale,
potrà veramente rispondere alle pressanti domande che ci poniamo sulla
nuova evangelizzazione e sul rinnovamento delle vocazioni sacerdotali e
religiose.
© L'Osservatore Romano 7 agosto 2011